sabato 1 marzo 2008

ROSSO DI SERA

ROSSO DI SERA.


Romanzo scritto nel 1955-56 per ricordare i Piccoli Martiri di Gorla
morti nel bombardamento della loro scuola il 20 ottobre 1944
(Pubblicato dalle edizioni Paoline nel 1958)

I



Il fiume faceva un’ansa, proprio lì, e la corrente aveva roso la terra dell’argine, lasciando un poco scoperte le radici del grande albero.
Era un platano certo più che centenario. Il tronco poderoso si alzava come una colonna enorme ed il fogliame si allargava simile alla cupola di un tempio. Ma era una cupola viva di sussurri, di cinguettii, di ombre e di luci, di fremiti d’ali e di palpiti di vento.
“Nannina, basta !”, gridò d’un tratto una voce dalla riva.
“Ancora un attimo, Laura … Un attimo solo …“.
Nell’acqua limpidissima una fanciulla si tuffava, riappariva e fuggiva, sollevando spruzzi scintillanti. L’ombra del fogliame danzava sull’acqua e pareva inseguire la figura guizzante che sempre la sfuggiva.
La testa bruna di Nannina era ad ogni istante nel sole.
“Basta, Nannina! Basta davvero, ora!“.
“Vengo, Lauretta … Ancora un tuffo!“.
Laura si alzò dall’argine e scese, afferrandosi ai cespugli, fino a sfiorare l’acqua. Era esile e bionda, coi lunghi capelli inanellati raccolti in due trecce che le scendevano sulle spalle.
“Si fa tardi, Nannina, e abbiamo ancora tante cosa da preparare. Sii buona ….“.
“Subito, subito … Ma come sei bella, Lauretta ! Se fossi un pittore ti farei un quadro!”.
La ragazza bruna si era avvicinata. I corti capelli appiccicati alla fronte le davano un’aria estremamente giovane. Raggiava di felicità.
“Proprio così, sai”, riprese Nannina ammirata, “e lo chiamerei “La Madonna del fiume.”.
“Pazzerella! Di te, invece, io farei un demonietto tentatore!”.
Un passo frusciò lieve sull’erba dietro di loro, ed una voce dal forte accento straniero, esclamò:
“Oh, no! Diavolo no! Ma -Gioia di vivere-. Ecco, ferma, Nannina. Un minuto …”.
Rapidamente l’uomo prese matita e album e cominciò a ritrarre la fanciulla che rideva, tutta grondante d’acqua.
Laura si era avvicinata e guardava trattenendo il fiato.
Le due amiche conoscevano bene lo straniero per le sue continue scorribande lungo il fiume con fogli e matite, alla ricerca di angoli caratteristici.
Era il tenente Franz Seefeld, che dirigeva il centro-radio tedesco accampato in paese.
Alto, sottile, biondo, un poco femminile nell’aspetto, non pareva fatto per la guerra. Gli occhi chiarissimi, la bocca sorridente, il lieve incarnato del viso lo rendevano simile ad un ragazzo vestitosi, per gioco, da soldato.
Con pochi tratti esperti, Nannina prese forma sull’album col fogliame del platano per cornice e l’acqua iridescente per sfondo.
“Fatto! -Gioia di vivere-. Piace?”.
Nannina era uscita dall’acqua e s’era messa a guardare stupita.
“Meraviglioso, Franz!”.
“ Piace?“ tornò a chiedere l’ufficiale volgendosi a Laura.
“Oh, immensamente!“.
“Immensamente!“ ripeté adagio l’uomo. “Bella parola italiana … Immensamente!”.
Poi, con un ultimo sorriso, ripose il disegno nella cartelletta. Ma Nannina, rapida, lo trattenne.
“Fermo! Ora vogliamo vedere tutti i vostri lavori. Permettete?”.
“Certo. Io -immensamente- felice!”.
Si sedettero sull’erba, al sole, ed egli aprì sulle ginocchia la cartella.
Ad uno ad uno, sui fogli, apparvero volti di bimbi, angoli di Vecchia Strada, scorci del fiume, il platano centenario, uccelli sui rami, pecore e mucche al pascolo.
Le due ragazze si passavano i disegni, ammirate.
Franz, di tanto in tanto, scoppiava in una risata, ricordando episodi legati a questo o a quel disegno.
“Ma Franz,“ esclamò Nannina quand’ebbero finito, “questa è arte, purissima arte!”.
“Oh, no!”, rise l’ufficiale, “no arte! Questo è amore, amore per Italia!”.
Si alzò, imitato dalle due ragazze, allargando le braccia e respirando a pieni polmoni:
“Io amo Italia, è troppo bella! Immensamente bella!“.
Rise di nuovo.
“Ho detto bene, Laura?”.
“Oh, sì.”
“Anche l’anima ha una patria: Italia è patria di mia anima.“.
Il sole si andava nascondendo dietro gli alberi dell’opposta riva, sfiorava le foglie, le orlava d’oro.
Nannina s’accorse di essere ancora tutta bagnata e rabbrividì.
“Vado a cambiarmi, aspettatemi,” e sparì dietro un cespuglio canterellando in sordina.
L’acqua del fiume scivolava via con un sospiro. C’era una gran pace intorno.
“Ricordo Amburgo a questa ora“, disse piano l’uomo“, cosa farà mia madre?”.
“E’ ben triste cosa la guerra, nevvero Franz?”.
Egli non rispose. Il suo sguardo, fisso lontano, non pareva più quello di un fanciullo. Era serio e duro. Laura n’ebbe pena e tenerezza insieme.
Nannina si era nel frattempo rivestita: uscì dal cespuglio col costume bagnato in mano.
“Un momento, amici, lo sciacquo e sono con voi.“.
Scese cantando al fiume e risalì rapidamente.
“Mi sembrate ammutoliti! Franz, domani parto; voglio portarmi via il sole, la gioia, il sorriso. E’ così bella la vita!”.
Sul viso dell’ufficiale sembrava essere calata una maschera.
“Ma che faccia da funerale, amico mio. Ridete, su, via i cattivi pensieri. Ci rivedremo, Franz, l’estate prossima? Chissà …”.
S’erano frattanto avviati lungo il sentiero stretto dell’argine. Le ragazze davanti, l’uomo dietro.
Nannina continuò con voce cantilenante:
“Domani vado a casa … un saluto a mamma, uno a papà e uno a Silvio, naturalmente...“.
Soffocò una risatina e arrossì.
“Poi al lavoro! Milano mi attende!“.
Lo disse con tale aria d’importanza che Laura scoppiò in una risata.
“Che c’è da ridere ? Milano è Milano, non c’è nulla al mondo che l’uguagli … Peccato che ci sia la guerra …”.
Tacque un istante, sospirando.
“Ma la guerra finirà”, assicurò come se la vita del mondo fosse dipesa solo da lei. “E’ così buona cosa la pace! Che ne dite?”.
Franz ascoltava, serio. Si affrettò a rispondere, come si fa coi bambini:
“Certo, Nannina, certo …”.
“Ma che discorsi importanti, ragazzi”, esclamò Laura. ”Guardate, piuttosto, Vecchia Strada si è rimessa a nuovo!”.
Il sole tingeva, infatti, il volto del piccolo paese, alto sulla lieve collina, ed esso spalancava porte e finestre per sorridergli.
“Il tramonto è un grande pittore“, aggiunse Franz, “peccato che non conservi gli schizzi, come faccio io, in una cartella!“.
Il sentiero in ascesa era stretto e ripido. Ma Nannina pareva salire senza appoggiare i piedi al suolo.
“Addio, Vecchia Strada!“, gridò ad un tratto, “anzi , arrivederci ! Porta fortuna, nevvero Franz, dire ‘auf wiedersehen’?”.
Il paese dal romantico nome di Vecchia Strada, consisteva in una contrada sola che partiva dal fiume e si allacciava alla provinciale. L’edificio della scuola era ad un capo e la chiesa all’altro. Il leggero rialzo su cui quest’ultima sorgeva, era quasi a picco sul fiume e andava, poi, dolcemente declinando.
Franz e le due amiche sbucarono sulla via proprio davanti alla chiesetta.
C’era, seduta al sole, una vecchia a sferruzzare, con accanto una bimba dal volto impastricciato.
La donna sollevò il capo sorridendo:
“Riverisco“, disse con gentilezza.
La ragazzina corse ad afferrare la mano di Laura:
“Ciao, maestra.”.
“Che dolcezza d’altri tempi si respira a Vecchia Strada,“ mormorò commossa Nannina. “Pare d’essere fuori dal mondo, qui.”.
“E’ Laura che sa farsi amare”, spiegò Franz.
“Oh, no. E’ il cuore della gente che è profondamente buono. Io lo conosco ormai. E per adattarmi ad esso, ho dovuto diventare un poco più buona anch’io,” rispose la fanciulla arrossendo di piacere.
La contrada era diritta e breve. A sinistra c’erano due ampie cascine dai vasti cortili: due piccoli mondi nel già piccolo mondo. A sera si chiudevano i portoni e uomini e bestie si sentivano in famiglia.
A destra c’era qualche orto, un’osteria, un minuscolo negozio, la scuola con la casa della maestra.
Tutto qui. A Vecchia Strada non c’era altro.
“Eccoci giunti”, disse Nannina quando furono davanti all’edificio scolastico. “Datemi la mano, Franz. Siete stato un caro compagno. Vi auguro buona fortuna, con tutto il cuore.”.
“Auf wiedersehen e buona fortuna a voi! Tanta felicità, Nannina! Partite anche voi, vero, Laura?”.
“Sì, ma tornerò presto. Accompagno soltanto Nannina dai suoi. E’ un viaggio un po’ lungo e non mi fido di questa pazzerella.”.
“Buon viaggio, allora, e tornate presto.”.
Si portò la mano al berretto e salutò militarmente. Poi sorrise e si allontanò.

II

II°

Nannina Silenti e Laura Landi erano amiche fin dagli anni della scuola. Avevano studiato insieme, nello stesso collegio e si erano diplomate nello stesso anno. Ma mentre Nannina era rimasta in città, Laura aveva preferito la campagna. E Vecchia Strada sembrava creata apposta per lei, per la sua grazia silenziosa, un poco romantica, forse, e d’altro tempo.
Ogni estate, per un mese almeno, Nannina veniva dall’amica. Giungeva allegra, profumata, canora.
“Faccio un tuffo nella semplicità “, diceva ridendo.
Ma, in realtà, pareva un colpo di vento disceso a spazzare in lungo e in largo il vecchio paese.
Già tutti la conoscevano: i bimbi la chiamavano per nome, i vecchi le sorridevano. Era un vero piacere per gli occhi stare a guardarla quando passava. Aveva poco più di vent’anni, ma pareva ancora più giovane. La sua grazia innata, unita ad una luminosa bellezza di bruna, la rendevano indimenticabile.
“ Tu sai muoverti e parlare come se dovunque ti trovassi a tuo agio. Come fai, chi ti insegna?“, le chiedeva Laura ammirata.
“Mah! Segreto!”, esclamava Nannina.
Gli occhi nerissimi sprizzavano felicità e il largo, candido sorriso avrebbe conquistato chiunque.
A Vecchia Strada, infatti, non c’era chi non le volesse bene e se un anno tardava a venire, tutti chiedevano di lei.
Laura aveva perso da tempo i genitori e, sola al mondo, si era definitivamente stabilita al paese che le era stato assegnato dopo il concorso. Non aveva stentato ad abituarsi, poiché, col suo carattere timido e silenzioso, era venuta a trovarsi a suo agio tra i lunghi viottoli campestri, dove raramente veniva fatto di intrecciare conversazioni. Poche parole e molti pensieri. E molti sogni, anche.
Nannina aveva, invece, numerosi parenti in una grossa borgata emiliana: padre, madre, fratelli, sorelle, nipoti. Diceva ridendo:
“Entro nell’alveare, chissà come ne uscirò!“ alludendo al suo ritorno in famiglia.
E aggiungeva :
“Vedi, Laura? Per me una sosta a Vecchia Strada è indispensabile. Se non esistesse, dovrei inventarla, proprio così com’è. Mi distende i nervi.”.
Insegnava alla periferia di Milano, a Gorla, posta tra l’immensa città e gli opifici di Sesto San Giovanni.
“Zona pericolosa”, spiegava all’amica. ”Metti il caso che un aereo sbagli d’un paio di secondi e sganci le sue bombe. Addio Gorla! E addio Nannina, naturalmente.”.
Era l’estate del ’44, l’anno più tremendo nella storia della guerra.
Ma a Vecchia Strada la sirena dell’allarme aereo non c’era, non c’era telefono, né suonavano le campane a martello. L’unico collegamento col mondo della guerra era il Centro-Radio tedesco, accampato in una baracca poco discosta dalla scuola.
Ma il tenente Franz non amava discorrerne, naturalmente. E se passavano le formazioni dei bombardieri, alte nel cielo, i bambini si divertivano a contarli; solo gli adulti pregavano o maledicevano. Ma preghiere e maledizioni erano fatte in sordina, poi la vita quieta riprendeva, tra il campo da seminare, o le bestie da condurre al pascolo.
“E’ così lontana, qui, la guerra! Talvolta mi pare solo una storia inventata dai grandi per spaventare i bimbi cattivi“, diceva Laura.
Ma Nannina la conosceva la guerra, e bene. Si era trovata a Milano, in centro, durante un tremendo bombardamento a tappeto. Aveva visto estrarre i morti a brandelli da sotto montagne di macerie. Rabbrividiva ancora al solo pensarci. Per questo non ne parlava mai.
Iniziando il viaggio, quel mattino, le due ragazze si erano preparate a stare piuttosto scomode. Ma più che scomodo, quel viaggio, risultò quasi impossibile.
La lunga tradotta, ove le normali carrozze erano state sostituite con carri bestiame, procedeva a stento, tra improvvise fermate in aperta campagna e rapide partenze senza preavviso. Sicché, spesso chi era sceso per sgranchirsi le gambe, rischiava di rimanere a terra.
Le soste nelle stazioni, anche se piccolissime, erano eterne e apparentemente senza motivo.
Sembravano fatte per dar modo a tutti di osservare gli ampi squarci nei fabbricati, le finestre senza vetri, le piante mozze e le enormi buche seminate dovunque nel terreno.
Dappertutto, lungo la linea ferroviaria, la guerra era passata.
Qualsiasi fiumiciattolo da attraversare diveniva un pericolo per la vita di tutti. Gli alti ponti traballanti, che avevano sostituito in fretta quelli bombardati, parevano trapezi da circo, su cui quel lungo treno facesse esercizi mortali.
La gente, affacciata ai carrozzoni, guardava giù, atterrita, tra le rotaie sospese nel vuoto e tratteneva il fiato.
Nannina e Laura erano capitate in un carro poco affollato e questa era già una fortuna.
C’erano, nell’interno, due panche addossate alle pareti e un po’ di paglia sparpagliata all’intorno. Due contadine, con ampie sporte nascoste sotto le vesti, stavano nell’angolo più buio e sbarravano gli occhi ad ogni fermata.
Appoggiati alla sbarra che divideva a metà la porta scorrevole, stavano due militari italiani ed uno tedesco. Di tanto in tanto si rivolgevano la parola, ma più che altro si intendevano a cenni. I due italiani erano giovanissimi e portavano la berretta rossa dei bersaglieri, col fiocco azzurro. Erano allegri e avevano la risata pronta e spontanea. Il tedesco era anziano, aveva i capelli grigi e un’aria triste e rassegnata. Guardava passare paesi e casolari come chi è stanco di vedere case straniere, identiche all’aspetto, ma sconosciute e forse nemiche nell’intimo.
C’erano, poi, un vecchio con due ragazzini ed una valigia logora, tenuta chiusa con una corda, e poi due fanciulle dall’aria contadina e una lunga zitella che guardava i suoi compagni di viaggio dall’alto del suo dignitoso isolamento.
La compagnia per le due amiche non era eccessivamente allegra. Ma che altro si sarebbe potuto pretendere in tempo di guerra?
Il viaggio per giungere a Santa Maria del Colle, dove risiedevano i parenti di Nannina, durava, di solito, quattro ore. Ma stavolta minacciava di non finire più.
Era mezzogiorno, ormai. Laura e Nannina si sentivano stanche e impensierite. Il treno attraversava ora ampie distese di campi, con paesini sperduti sotto il sole.
Qualche casetta, tinteggiata di rosa o di bianco, veniva incontro al convoglio e subito fuggiva via, tra lo starnazzare agitato delle galline.
Ad un tratto da una di quelle case si vide uscire gente spaventata, che, con gesti terrorizzati, indicava il cielo, cercando poi rifugio in piena campagna.
Il treno con uno stridio di freni si fermò.
Un grido, che pareva venire da sotto terra, si insinuò tra le porte spalancate dei vagoni.
“Gli aerei !”.
Come foglie che si staccano dai rami, in novembre, dopo una notte di brina, o come formiche in fuga dal fuscello che prende fuoco, così dai carri scesero alla rinfusa esseri umani sbiancati, urlanti, spingendosi, cadendo, piangendo.
In un attimo il treno fu spoglio. Rimase fermo sui binari luccicanti con un’aria di desolata rassegnazione, come chi sa di essere votato al supplizio. Dall’alto veniva un rombo pesante.
Ogni siepe, ogni fossato, ogni albero diventava un rifugio, e più lontano era dalla linea ferroviaria, più sembrava sicuro.
Con l’agilità dei loro vent’anni, Nannina e Laura avevano raggiunto e sorpassato la casa colonica.
Il rombo degli aerei era paurosamente vicino. Già si udiva il sibilo caratteristico della picchiata.
“Gettati a terra, Laura!“, urlò Nannina.
Ambedue strisciarono tra l’erba folta al fragile riparo di un filare di viti.
La prima bomba parve vicinissima. E dopo quella un’altra, un’altra ancora. E, frammischiate ad esse, si udiva il crepitio delle mitragliatrici.
Nuvole di polvere densa si alzarono attorno a loro. Nessuno aveva più la forza di gridare.
Passarono alcuni minuti che parvero eterni. Quando, finalmente, Nannina alzò il capo, gli aerei si stavano allontanando.
“Se ne vanno, Laura!”
Adagio si tirarono su a sedere, guardandosi intorno sbalordite. S’accorsero allora, con stupore, che non erano sole. Altri volti, altri occhi si sollevarono come per incanto tra l’erba alta.
Una voce disse :
“C’era un ponte, appena più in là, devono averlo colpito.”
“E guardate il treno!“.
Tra la polvere che si dissolveva, ora si vedeva chiaramente la locomotiva rovesciata, alcuni vagoni fracassati ed altri già in preda alle fiamme.
Nell’aria, dopo il fragore del bombardamento, c’era un silenzio quasi irreale.
Con occhi sbarrati tutti fissavano il convoglio, sul quale avevano viaggiato per tante ore.
Sarebbe bastato un attimo di ritardo nel fermarlo e la morte sarebbe scesa dal cielo, inevitabile, anche per loro.
“Forse niente morti”, disse all’improvviso una voce dal duro accento straniero.
Tutti si voltarono. Era l’anziano soldato tedesco che veniva dall’aver perlustrato la zona bombardata.
“Forse niente morti,“ ripeté, “molta fortuna … “.
“Ed ora che si fa?“, chiese uno.
“Bisognerebbe almeno staccare i vagoni ancora intatti, altrimenti brucia tutto,“ disse uno dei giovani bersaglieri, “chi viene con me?“.
Alcuni uomini, militari e civili, si staccarono dal gruppo e lo seguirono.
Al di là del campo, intanto, sulla strada che correva parallela alla ferrovia, già stavano arrivando autocarri militari. Alcuni soldati si avvicinarono al gruppo dei passeggeri.
L’autolettiga della Croce Rossa giunse ululando. Ordini, grida, richiami si intrecciarono nell’aria.
Dalla vicina casa colonica, solo un po’ sbertucciata dalla mitraglia, venne una vecchia con una bottiglia di grappa ed un bicchiere. Si avvicinò alle donne offrendo loro da bere.
“Tanto per rincuorarsi un po’”, andava dicendo, ”non fate complimenti.”.
Nannina e Laura cercarono di rassettarsi gli abiti alla meglio.
“Come ci siam ridotte! E pensare,“ disse Nannina, “ che tu potevi essere tranquillamente a Vecchia Strada a quest’ora! Sono stata un’incosciente a chiederti di accompagnarmi.”.
“E’ stata un’esperienza un po’ dura, “ rispose l’amica, “ma forse ci voleva. Non mi ero ancora resa conto di quello che è la guerra.”.
“Ed ora che si fa ?”.
“ Già, che si fa ?”.
Questa domanda se la stavano ponendo un po’ tutti .
Chi era giunto quasi al termine del viaggio, essendo pratico dei luoghi, aveva deciso di proseguire a piedi e già si incamminava.
Gli altri si erano avvicinati ad un capitano del Genio, appena giunto, che pareva volersi assumere la responsabilità del loro viaggio.
“C’è il fiume a circa cinquecento metri. Penso che tutti riescano a raggiungerlo. Là verrete traghettati, poi vedremo.”.
Come un gregge dietro ad un pastore, tutti si ammassarono alle sue spalle. I galloni d’oro del suo berretto e le spalline luccicavano al sole. Egli pareva un gigante tranquillo e sicuro e gli altri una folla di gnomi.
Nannina aveva già ritrovato il suo spirito allegro. Già riprendeva a scherzare.
“La barca di Caronte, Laura!”, gridò vedendo l’enorme traghetto avvicinarsi alla riva.
“Gesù Maria,“ strillò una donna, “quanto è grande il fiume, io ho paura!“.
“Macché paura”, rispose calmo il capitano, “per ora non tornano, non c’è pericolo.“.
Ma intanto il panico si stava nuovamente diffondendo. Un ragazzino si mise a piangere forte. Un altro gli fece eco chiamando la mamma.
“Io non salgo,” si impuntò una ragazza deponendo a terra il suo fagotto.
“Su, su “, tornò a dire il capitano, “non facciamo sciocchezze. Restar qui è pericoloso, ci può essere qualche bomba inesplosa.”.
Alcuni militari cercavano di sollecitare i più dubbiosi, spingendo, portando bagagli, prendendo in braccio i bambini. L’anziano soldato tedesco frugò nello zaino e ne estrasse un pezzo di cioccolata.
“ Prendere”, disse rivolto al piccino che invocava la mamma,” mangiare, molto buono.”.
Un po’ per volta la zattera si riempì. Il barcaiolo mollò le corde e azionò il motore.
La folla sudata, tremante e pallida stava ammucchiata al centro della imbarcazione.
Nannina e Laura, appoggiate al parapetto, osservarono il ponte. Le arcate pendevano tronche, i mozziconi dei piloni affioravano dall’acqua, pezzi di rotaie si scagliavano verso il cielo come punti interrogativi. Il fiume era ampio, e l’acqua profonda correva via scura e liscia. Solo giungendo al ponte urtava contro l’ammasso delle macerie e rimbalzava indietro, con gorghi e cascate improvvise.
L’imbarcazione era giunta al centro del fiume, quando una donna, terrorizzata, urlò:
“Gli aeroplani!”.
Tutti gli occhi si levarono al cielo.
Su, su, tra uno sfolgorare accecante, si vedeva un piccolo aereo. Già se ne udiva il pulsare solitario.
“Aiuto!”, gridò qualcuno.
Tutta la folla ondeggiò.
“Aiuto! Aiuto!”.
Il grido si fece urlo. La barca ondeggiò pericolosamente. Il gruppo era solo e nudo su quel grande fiume.
“Calma”, gridò il capitano, “è un ricognitore!”.
Ma la sua voce neppure si udì. Allora con un cenno diede un ordine ai militari. Essi rapidamente circondarono il gruppo.
Una vecchia contadina con gli occhi da pazza, con uno scatto improvviso si scagliò contro il parapetto per gettarsi in acqua. Un soldato ebbe appena il tempo di afferrarla per la gonna.
“Siete impazzita?” gridò.
“State calmi, state calmi,“ si affannava a ripetere il capitano.
Gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Di tanto in tanto si mordeva le labbra e lanciava occhiate supplici al barcaiolo perché facesse presto.
“State fermi! Non muovetevi, per carità! Affonderemo tutti,“ ripetevano i soldati“. Non è nulla ! E’ un ricognitore. Già se ne va, guardate.”.
Ma quel maledetto piccolo aereo andava e tornava, girando come un falco in cerchio sulla preda.
Nannina, afferrata Laura, guardava in alto e ripeteva:
“Non aver paura, Lauretta. Quello se ne va, se ne va davvero … ”.
L’acqua gorgogliava contro i fianchi del traghetto e il motore ansava, affannato.
“Lasciatemi, lasciatemi … traditori, mi volete morta !” continuava a urlare la vecchia, dibattendosi tra le braccia del soldato.
Un uomo, col pugno teso verso quel piccolo uccello d’acciaio, gridò:
“Che tu sia maledetto, assassino!”.
Una mamma con due bimbetti accanto, cominciò a pregare:
“Ave Maria, piena di grazia … “.
Qualcuno la intese e si unì ad essa :
“… il Signore è con te, tu sei benedetta tra le donne …“.
“… e benedetto è il frutto del seno tuo, Gesù …“.
Una gran calma si fece sulla barca. Il capitano estrasse un fazzoletto e si asciugò la fronte.
L’aereo si alzava ed abbassava, s’allontanava e ritornava, come indeciso.
La riva opposta si faceva sempre più vicina.
Quando il coro giunse al “… così sia “, il barcaiolo gettò la corda e la zattera approdò.

III

III°

Era già sera quando un autocarro militare depose Nannina e Laura ai piedi della salita che portava a Santa Maria del Colle: una sera tranquilla, coi grilli che cantavano nei prati e le lucciole in giro sulle rive.
La strada si snodava dolcemente, a grandi curve ed era bianca sotto la luna.
Sulla spalletta di un ponte due vecchi fumavano la pipa e alcuni ragazzi suonavano degli zufoli di canna.
Due file di pioppi vestiti d’argento frusciavano alla brezza e salivano pigramente verso il paese.
Un gruppo di case fiancheggiava per un tratto la strada. Erano basse, tinteggiate di chiaro, con porte e finestre spalancate. Sulle soglie c’erano le donne che ninnavano i più piccini.
Nannina respirò a pieni polmoni l’aria di casa sua, poi prese l’amica per mano e cominciò a salire.
“Vieni, Laura: la mia casa è la prima per chi viene dalla valle. Ora saranno quasi tutti a dormire, ma domattina vedrai! C’è una fila di bambini che non finisce più. Il babbo ha la barbetta bianca a punta: sembra Mefistofele! E la mamma è una santa. Chissà che festa vedendoti!”.
La stanchezza dell’interminabile viaggio, Nannina l’aveva lasciata giù, a valle. Laura, invece , era ancora stordita.
“Mi sembrano mille anni da che ho lasciato Vecchia Strada!”.
Tacque un poco, pensosa.
“A quest’ora i miei scolari staranno rincorrendo le lucciole, e Franz fumerà la sua sigaretta davanti alle scuole.”.
“ Rimpiangi, vero?”.
“Oh, no,“ si scusò turbata Laura.
Ma nell’ombra era arrossita. Rimpiangeva, sì, rimpiangeva tutto di Vecchia Strada, uomini e cose, lucciole e stelle. Eppure uomini e cose, lucciole e stelle c’erano anche quassù …
D’un tratto, ad una svolta, sbucò un ragazzetto in bicicletta, correndo all’impazzata.
Nannina si fermò a guardarlo, poi gridò, agitando le braccia:
“Franchetto! Franchetto!”
Il ragazzo si fermò, appena gli fu possibile, poi risalì verso le due amiche, spingendo di corsa la sua bicicletta.
“Nannì!”.
Si gettarono l’uno nelle braccia dell’altro.
“E’ il mio fratellino” disse Nannina quando potè liberarsi dall’abbraccio. ”E’ il mio fratellaccio, il più matto della compagnia. Ma lo dico a papà come corri con la bici! Vedrai!”.
Franchetto non si spaventò. Probabilmente credeva poco alle minacce della sorella. Tese la mano con serietà a Laura, presentandosi :
“Franco Silenti, studente”.
La risata di Nannina uscì schietta e dilagò, come una cascata di perle, lungo la strada deserta.
Franchetto era un ragazzo sui quindici anni, bello, bruno, vivace, molto simile alla sorella.
Afferrò la valigia delle due ragazze e chiese:
“Preferite che vi accompagni, o che vi preceda? Potrei dare l’annuncio a casa.”.
“Per carità, resta, resta. Sveglieresti l’alveare e allora addio pace!”.
Camminando affiancati i due fratelli si raccontarono tutte le novità.
In breve Nannina fu informata del lavoro di papà, della scarlattina superata da Annarella, del primo dente spuntato a Giovannino, della serva, che nascondeva le uova per non consegnarle all’ammasso e di mille altre piccole cose, che la parlantina incessante di Franchetto andava sciorinando con freschi e sagaci commenti.
Il paese ora era vicino. Già se ne vedeva biancheggiare il campanile tra il nero di un folto d’alberi.
“Ecco Santa Maria, Laura. Alla prima svolta vedrai casa nostra”.
Affrettarono il passo, quasi senza accorgersene.
Un suono di campane giunse dal basso. Subito rispose, dall’alto, un nuovo tocco, poi un altro e un altro ancora.
I due cori si confusero nell’Ave Maria della sera, come madri che unissero i loro pianti nel ricordo dei figli lontani. Nannina, con voce un po’ roca, disse piano:
“L’unica cosa che mi commuove quando sono lontana, è proprio il ricordo di queste campane. Non ne ho mai udite di uguali. Ne sento tanto la mancanza quando sono a Milano”.
La melodia pareva giungere da ogni cosa lì intorno. Sembrava sgorgare dal ruscello, dal fruscio dei pioppi, dall’armonioso andare delle lucciole: s’accompagnava al cri-cri dei grilli, si addolciva nel lume della luna, faceva sbattere le palpebre alle stelle.
E quando il coro tacque, lasciò i tre giovani attoniti, mentre sul volto di Nannina scorrevano le lacrime. Franchetto prese il suo fazzoletto, un poco sporco, e glielo passò sugli occhi.
“Siamo a casa, sorellina”, le sussurrò.
Laura si sentì estranea e sola. Le pareva di essere una lucciola vagante e forse, al par di lei, desiderò d’esser presa da qualcuno che le dicesse:
“Vieni con me, andiamo a casa … “.
Era così presa dai suoi pensieri, che trasalì quando Nannina le afferrò una mano con tenerezza, mormorando:
“Vieni, siamo a casa, ormai.”.
La grande costruzione bassa e solida pareva attendere le due ragazze impassibile, senz’ombra di commozione. Non c’era alcuna finestra illuminata e sembrava deserta.
Laura rimase meravigliata nel vedere quant’era grande.
La fila di finestre nere sulla facciata le dava l’aspetto di un collegio. Dietro ad ognuna di esse si poteva facilmente immaginare una fila di lettini bianchi allineati.
Nannina aveva affrettato il passo, dapprima insensibilmente, poi sempre più rapida. Infine si mise a correre. Laura restò indietro col ragazzo.
“Pare una farfalla.”, mormorò egli come tra sé. “Io dico che è troppo bella“, aggiunse volgendosi alla fanciulla. “Le voglio tanto bene, sa!”.
“ Lo credo.”
“Siamo più che fratelli io e lei, siamo i più cari amici del mondo. Io sentivo che doveva arrivare. Lo dicevo alla mamma, ancora a cena. Lei diceva di no, che era troppo tardi. Ma io avevo qualche cosa qui … Lei non può capire … “.
“No,“ pensò Laura con tristezza, “ io non posso capire … Non ho nessuno, io.”.
La voce acuta di Nannina li raggiunse, mentre ella spariva dentro la casa.
“Sveglia“, gridava, “sveglia, gente! Mamma! Papà!”.
Franco si fermò sulla soglia per lasciar passare Laura. Nannina era sommersa tra le braccia di una grossa signora dai capelli tutti bianchi. Intorno stavano giovani donne, uomini, ragazzi.
“Ci sembra tutto il paese,” pensò.
La stanza era ampia, adatta ad una famiglia patriarcale, qual era quella dei Silenti. Ma pareva rimpicciolita dallo straordinario assembramento.
“Vede? Questa è casa nostra!” disse con orgoglio Franchetto.
Depose la valigia per terra, poi si fece largo tra la folla che circondava la sorella, dicendo a voce alta:
“Non siate maleducati. Abbiamo un’ospite.”.
Nannina riemerse dalle braccia della madre e presentò l’amica con un sorriso felice.
Era tutta spettinata e la corta zazzeretta nera le ricadeva sulla fronte, dando ai grandi occhi riflessi ancora più fondi.
Laura passò da un abbraccio all’altro, strinse mani e mani, accarezzò bimbi e bimbette. Non si raccapezzava più.
Allegramente e con una sollecitudine incredibile, data la grande ressa nella stanza, venne apparecchiata la tavola, mentre le due amiche furono condotte di sopra a ripulirsi e rinfrescarsi.
Quando tornarono, Nannina era raggiante e Laura ancora sbalordita.
“Ho bisogno d’un lungo sonno,“ disse, “mi pare di non essere più io.”.
Le pareva così lontana Vecchia Strada! Un mondo da fiaba, di cui si è sentito parlare da piccini, che è rimasto nell’anima come un bel sogno.
Finita la cena, salirono, finalmente, nella loro stanza, dove gli alti letti di ferro erano profumati di buon bucato campagnolo.
Nannina sprofondò in un sonno quasi immediato, ma a Laura tornarono alla mente, ad una ad una, le impressioni di quella giornata terribile, col treno, gli aerei, la zattera, il fiume. Risentì l’urlo della donna che voleva gettarsi in acqua, la maledizione gettata da quell’uomo contro il cielo, il fragore delle bombe, il grandinare dei colpi di mitraglia, e poi sussulti, tremori, lamenti di persone atterrite.
“Dio mio, basta!“.
Basta con quel treno sospeso su ponti simili a trapezi da circo, basta con le rotaie divelte, le arcate tronche , le rovine ammassate attorno ai piloni, il ronzare solitario di quel piccolo ricognitore …
“Basta di tutto ciò, Signore”, pregò dentro di sé.
Continuò a girarsi e rigirarsi, le venne da piangere senza riuscire a scacciare gli incubi di quella eterna giornata. Cercò, allora, qualcosa di dolce, di buono a cui aggrapparsi per dimenticare.
Così le vennero incontro i lunghi viottoli del suo paese, il fruscio dei piedi nudi sull’erba, il sussurrare dei pioppi e lo scorrere lento del fiume. Mai il suo piccolo mondo le era apparso tanto bello.
A poco a poco rumori e voci giunsero a farle compagnia.
“Ciao, maestra … “, sussurrò una voce di bimbo.
“Auf wiedersehen, Lauretta … “.
S’addormentò, così, sognando Franz con le spalline d’oro scintillanti al sole e due occhi chiari che si confondevano col cielo.

* * * * *

L’indomani Laura fece la conoscenza col resto della famiglia: i nipotini, la nonna, il padre di Nannina.
Il padre era medico e dirigeva una clinica, modernamente attrezzata, in Santa Maria. Egli viveva per il suo ospedale e ne era orgoglioso, dato che esso godeva di molta rinomanza nei dintorni.
La particolare posizione del paese, poi, rendeva la clinica quasi sicura contro i pericoli della guerra. Era, quindi, un posto ideale per un luogo di cura.
Un’ala della costruzione era destinata al reparto Maternità ed i bimbi vi nascevano in un ambiente sano e sereno.
“Magari“, soleva dire il vecchio medico, “magari portassero nella vita la serenità che qui li accoglie alla nascita!“.
Esternamente pareva una grande villa dai viali alberati, coi fiori nelle aiuole e le tendine alle finestre. Guardava dall’alto del colle la valle sottostante e da lassù le case parevano giocattoli per bambini e le strade nastri candidi posti giù per i pendii. Internamente tutto era uno splendore: luccichio di pavimenti, scintillio di cromature, iridescenze di cristalli.
Nei corridoi e nelle corsie Nannina venne accolta festosamente.
“E’ arrivata la primavera!”, esclamò un giovane medico tendendole la mano.
“Questo è Silvio”, disse la fanciulla presentandolo all’amica.
Era un ragazzo simpatico, abbronzatissimo, con due strani occhi tra l’azzurro e il verde e un corpo atletico chiuso nel camice bianco.
Afferrò Nannina per le spalle e se la strinse al cuore ridendo.
“Finalmente, Nannì! Non tornavi più quest’anno. Vieni, c’è una sorpresa per te.”.
Tenendola per mano e invitando Laura a seguirli, se la portò lungo i corridoi, fino all’ala estrema della villa.
“Visto che ti piacciono tanto i bambini, tuo padre ed io abbiamo pensato di fartene trovare un paio proprio stamattina, nuovi nuovi, appena portati dalla cicogna.”.
Sempre ridendo, entrò in una stanza tutta inondata di sole, dove due batuffoli rosa strillavano con tutto il fiato dei loro giovani polmoni.
“Meravigliosi!“ esclamò Nannina, sollevando prima l’uno e poi l’altro.
“Maschietti?“ chiese Laura.
“Oh, no! Crede che urlerebbero tanto? Femminucce.”.
“Maleducato!” rise Nannina.
“E figurati che questa è figlia della Rosa, la settima, e la vuol chiamare Nannina !”.
“No!“.
“Sicuro! Io ho cercato di spiegarle che già dimostra d’essere una piccola peste, senza bisogno che le mettano il tuo nome. Ma la Rosa si ostina … Peggio per lei, povera donna … “.
Così dicendo, afferrò la fanciulla per le spalle e le scompigliò con forza i capelli.
“Basta, Silvio, guarda che chiamo papà … “.
“Ecco, così mi piaci di più. Sembri una passeretta scarduffata.”.
Con grande tenerezza, quasi incredibile in quel giovane gigante, le posò un bacio sui capelli.
Laura, imbarazzatissima, non sapeva più dove guardare. Giocherellava con le manine delle due piccine, le quali non smettevano di lanciare strilli.
“Fai arrossire Laura, vergognati Silvio”, mormorò Nannina.
“Oh, mi spiace, signorina .”.
Ma si capiva benissimo che non gli spiaceva affatto.
“Sa, questo è il suo castigo. Si fa sempre troppo attendere. Temo che da un giorno all’altro non torni affatto. Milano è una divoratrice di uomini … e di donne, naturalmente. Ma Nannina non è una donna, è metà passero e metà farfalla. Forse per questo mi è dato di rivederla di tanto in tanto.”.
Dal corridoio avanzava il dottor Silenti e i tre giovani gli si fecero incontro.
“Voglio mostrarvi, “ disse, “ l’altra novità dell’ospedale. Abbiamo ricoverato anche alcuni soldati. Due sono convalescenti da ferite. Gli altri ammalati di malaria.”.
Insieme riattraversarono sale e corridoi e giunsero al reparto riservato ai militari.
“Vedi, “spigò Silenti alla figlia, “quei tre laggiù sono tedeschi, gli altri sono italiani, i due convalescenti stanno in giardino. Li potrai vedere uscendo.”.
Tutti i malati erano giovanissimi. I loro occhi, pure lucidi di febbre, sorridevano alle due ragazze.
“Che visita gradita, dottore,” esclamò uno dal forte accento meridionale , “con due infermiere così, sento che mi passerebbe anche la malaria!“.
Conversarono un poco, allegramente. Anche i tedeschi cercavano di farsi comprendere, usando le loro scarse cognizioni della lingua italiana.
“Tornate ancora,“ dissero nel salutare.
“Auf wiedersehen!“.
Nel passare dal giardino si fermarono a salutare i due convalescenti, uno dei quali camminava con le stampelle: poi, dato che era quasi mezzogiorno, i medici rientrarono e le due amiche tornarono a casa.
Le giornate a Santa Maria del Colle trascorrevano allegre e movimentate. La numerosa famiglia di Nannina e soprattutto Franchetto, non permettevano mai alle due ragazze d’esser sole, o di provare malinconie. Nannina pareva uno spiritello scatenato: non era ferma un istante. La casa, le strade, l’ospedale risuonavano della sua schietta risata, dei suoi richiami, dei suoi canti.
Tutto il paese sapeva che Nannì era tornata. Grandi e piccini la chiamavano per nome, la stuzzicavano, le sorridevano. Era un poco come se fosse figlia di tutti a Santa Maria. Franchetto non la abbandonava un minuto. La faceva salire sulla canna della sua bicicletta e scendevano giù a rotta di collo fino a valle. Tornavano accaldati e ripartivano subito verso la campagna. Da quelle gite la fanciulla ritornava con enormi mazzi di fiori campestri.
Le serate a Santa Maria del Colle erano deliziose.
Sul grande prato i più piccini si addormentavano presto in braccio alle mamme. I più grandicelli o rincorrevano le lucciole, o ascoltavano, con l’orecchio tra l’erba, il canto di un grillo.
Canzoni e serenate scoppiavano improvvise con risate e giochi, ricordi e fiabe. Tutta la casa pareva aver ripreso vita col ritorno di Nannina.
Come sembrava lontana la guerra !
Eppure anche a Santa Maria suonavano di tanto in tanto le campane a martello dell’allarme aereo e le formazioni dei bombardieri passavano alte, dirette verso il nord.
La radio recava ogni giorno tristi notizie: arretramenti di linee, paesi distrutti, profughi in fuga, soldati caduti.
Ma Nannina , quando ne udiva la voce, correva a spegnerla.
“Basta!“ gridava. “ Tra poco, a Milano, avrò la guerra fin dentro la scuola; ora voglio scordarla.”
E ci riusciva alla perfezione. Si godeva la sua vacanza con una pienezza di vita che incantava.
Laura, invece, ne era stravolta. Non si riconosceva più. Tutta la sua esistenza pensosa e solitaria pareva mutata.
A notte, quando tutto si faceva finalmente silenzio attorno a lei, tornavano i ricordi. Ricominciava, allora, a ripensare a Vecchia Strada, alla lunga quiete dei suoi tramonti, ai taciturni viottoli accanto al fiume. E desiderava ardentemente d’essere di nuovo a casa.
“Domani me ne vado, Nannina,“ disse un giorno, improvvisamente.
“Te ne vai? E perché?“ chiese l’amica stupefatta. “Non stai bene qui?”.
Laura sorrise:
“Non è questo . . .”.
“Ho capito !” gridò Nannina con uno sguardo birichino. “E’ per Franz!”.
“Oh, no!“ replicò con forza Laura, arrossendo.” Che discorsi fai, Nannina …”.
“E allora, perché?”.
“Non saprei dirtelo … Non so … Forse desidero solo un po’ di silenzio.”.
“Mi dispiace, ne sono mortificata, ma da domani, qui, li faccio star zitti tutti. Basta che lo dica a papà.”.
“No, no … !”.
Era assurdo, infatti, pensare a casa Silenti taciturna, quando la sola presenza di Nannina elettrizzava tutti, uomini e cose.
“Si era pure intesi che ti avrei solo accompagnato a casa.”.
“E tu vuoi rifare quel tremendo viaggio da sola … ?“.
Questo era il segreto terrore di Laura: rifare da sola quel cammino eterno, ripassare sugli stessi ponti traballanti, salire sulla stessa zattera carica di umanità disperata.
L’amica vide l’incertezza nel suo sguardo.
“Resta almeno fino all’inizio delle scuole, poi ripartiremo insieme.”.
“E’ impossibile, Nannina.”.
“Lascia allora che trovi qualcuno che faccia il tuo stesso viaggio. Capita , talvolta, che si debba andare verso il nord. Oggi ne parleremo a papà.”.

IV

IV°

Ed ora vecchia Strada veniva incontro a Laura, nel buio incipiente, con volto amico.
Nessuno stava ad attenderla. C’era solo qualche volo di rondini attorno al campanile e un ciangottar di passeri tra le fronde dei vecchi alberi che fiancheggiavano la via.
Laura con la sua valigetta sciupata, affrettava il passo. Era infinitamente stanca.
Nannina le aveva trovato un compagno di viaggio: era uno dei soldati convalescenti dell’ospedale di Santa Maria, che andava a Milano in licenza. Con lui si era sentita più tranquilla.
Avevano viaggiato quasi sempre su autocarri militari tra continui sballottamenti e scossoni. Nessun incidente aveva turbato il lento andare. Anche la zattera sul Po aveva mutato aspetto: era semideserta e nessun aereo era venuto a far acrobazie su di essa.
Pigiata in mezzo ai soldati, Laura non aveva avuto modo di scambiare molti discorsi. Solo il suo compagno gli mostrava, di tanto in tanto, paesi e città, rovine e postazioni antiaeree. Con lui parlò anche di Nannina, di Silvio, del dottor Silenti. Quando egli proseguì in treno per Milano, ella cercò, un po’ spaurita, un altro mezzo che la portò, finalmente, a pochi chilometri da casa. Poi si era incamminata a piedi.
Ma ora Vecchia Strada era lì a due passi, con la sua pace silenziosa, come un paese dipinto in un quadro. Le sue due stanzette, fresche ed amiche, le sorrisero appena ebbe acceso le lampade. Le parevano persino più belle.
Si preparò un po’ di cena e mangiò, semi sdraiata sulla poltrona posta vicino alla finestra.
Insensibilmente gli occhi le si chiusero: una dolce sonnolenza l’avvolse ed ella non reagì. Era così bello lasciarsi afferrare dall’onda del sonno.
Ad un tratto un passo noto risuonò sul marciapiede, una mano picchiettò sui vetri, leggera.
Ella si svegliò di colpo.
“Bentornata, Lauretta …”.
“Oh, Franz!”.
Si alzò rapidamente, aprì le imposte e i vetri.
Col volto tra le sbarre dell’inferriata l’ufficiale sorrideva.
“Bentornata,” ripeté.” Buono il viaggio?”.
“Abbastanza, Franz, ma avevo una gran voglia d’essere a casa.”.
“Stanca?”.
“Molto. Mi ero addormentata qui sulla poltrona … ”.
“Buon riposo, allora.”.
“Grazie, altrettanto a voi, Franz.”.
“Ci vediamo domani?”.
“Certo. Non parto più, ormai.”.
“Molto felice. Immensamente felice!“.
Le tese la mano attraverso l’inferriata.
Non era bello, Franz, troppo biondo, forse, come slavato sotto il gran sole lombardo. Ma quando sorrideva mutava espressione e gli occhi prendevano luce.
Laura chiuse adagio i vetri, avvicinò le imposte, poi spense le luci e salì nella sua stanza.
Tra i bambini che frequentavano la scuoletta di Laura c’era anche un ragazzo che aveva ormai quattordici anni. Era Michele, l’innocente, come lo chiamava il parroco, o Miche, il fedelissimo, come amava definirlo la maestra.
Da quattro anni ella insegnava a Vecchia Strada e da quattro anni se lo vedeva giungere, puntuale, ogni mattina, con la cartelletta piccola piccola, di tela, cucita da sua madre, ed un corpo esuberante, che a malapena restava chiuso negli abiti lisi e sbiaditi.
Abitava nelle immediate vicinanze della scuola, in uno di quei cortili dove, a sera, si chiudevano i portoni perché uomini e bestie riposassero insieme, in pace.
Da quattro anni occupava lo stesso banco accanto alla cattedra ed era pronto a raccogliere il gesso se cadeva, a spolverare la sedia se Laura doveva sedersi, ad abbassare l’imposta se il sole le dava fastidio. Le preparava la legna per la stufa d’inverno, correva al pozzo più profondo del paese per riempirle il secchio d’acqua fresca d’estate. Camminava ore ed ore per cercare le lumache o le rane, i fiori o l’insalata campestre. Affondava gli stivali nell’acqua dei fossi per afferrare i minuscoli pesci così saporiti, che Laura poi cucinava. Spesso sedevano insieme, maestra e scolaro, a consumare la povera cena.
Michele aveva due occhi scuri, umidi e sporgenti e pareva che ad ogni istante le lacrime dovessero uscirne a fiotti. Le lunghe braccia, un po’ scimmiesche, gli pendevano inerti come se non sapesse bene cosa farne.
Solo il corpo, poderoso e robusto, sarebbe stato perfetto, se egli non avesse avuto l’abitudine di camminare curvo, il capo affondato tra le spalle, con una andatura dondolante, che dava modo a tutti di riconoscerlo anche al buio.
La sua intelligenza, diceva il parroco, si era fermata all’età di sei anni. Il corpo, invece, era cresciuto col passare del tempo. La mente s’era chiusa in se stessa ed egli parlava, pensava e agiva come un bimbo ingenuo e innocente.
Quella povera donna di sua madre, che aveva messo al mondo una fila di ragazzoni lavoratori e capaci, non sapeva spiegare il perché di quella maledizione di Dio.
“Non è una maledizione, Agata,“ le diceva Laura, “quante pene gli risparmia la vita. Potessimo tutti restare col cuore dei bambini, senza conoscere il male e senza soffrirne. Michele non soffre; non dovete patirne neppure voi, Agata, se gli volete bene.”.
Laura se lo teneva accanto come un cagnolino fedele. Talvolta gli parlava dei suoi sogni. Si sfogava con lui. Egli la guardava con gli occhi lucidi e devoti e diceva di sì col capo, scrutava intorno per scoprire ciò che potesse farle piacere e sempre trovava qualcosa che la faceva sorridere.
Spesso, la sera, sedeva sotto la sua finestra e cantava con la sua voce stonata.
“Ciao, Michele,” gli diceva la gente nel passare. ”Cosa fai ?”.
“Faccio compagnia alla maestra,“ rispondeva invariabilmente, anche se la maestra non c’era, anche se già dormiva da un po’.
Quando arrivava l’ora di chiudere il portone della cascina, sua madre andava a prenderlo. Egli si alzava, ubbidiente, e mentre si incamminava, gridava:
“… ‘notte, maestra!“.
Poi seguiva sua madre, serenamente, come un bimbo pieno di sonno, che non vede l’ora di mettersi a letto.
Settembre era tanto dolce a Vecchia Strada!
Le donne andavano in campagna con gli enormi cappelloni di paglia e le solite antiche canzoni sulle labbra. Le vecchie, sedute al sole, sferruzzavano o rammendavano, con un occhio al lavoro e l’altro alla gente che passava, con una preghiera da recitare, o un pettegolezzo innocente da sussurrare.
E i bambini! Oh, gli stupendi bambini di Vecchia Strada, arditi e timidi insieme, garruli come passeri o profondamente pensosi se avevano due capre, o un branco di pecore da portare a pascolare.
Essi riempivano di vita la contrada, di risa, di strilli, di grida i campi e i cortili.
Anche quel mattino, mentre Laura usciva di casa, seguita dall’immancabile Michele, la breve piazza ne era piena. Scalzi e spettinati si stavano rincorrendo.
“Michele, dove vai? Vieni a giocare con noi!“, gridavano i compagni.
“No, faccio compagnia alla maestra” egli rispose tranquillamente.
Anche Laura si trattenne in mezzo a loro, fingendo di rincorrere ora l’uno ora l’altro, per la gioia di sentirli ridere.
Ad un tratto un rombare possente fece tremare la terra sotto i piedi.
Michele guardò in su e cominciò a tremare. Laura lo prese per un braccio e lo strinse a sé. Tutti i bambini le corsero vicino e sembravano pecore accanto al pastore.
Tanti occhi innocenti cercarono, in alto, nell’azzurro, gli aerei carichi di morte.
Ed ecco: dopo un attimo d’attesa spuntarono. Erano pochi, in ordine sparso, come in fuga. Poi si riunirono, quasi cercandosi.
Il gruppetto dei bambini era là, al centro della piccola piazza, macchia viva e invitante nella gran pace dei campi.
Gli aerei avevamo il muso aguzzo drizzato verso l’alto. Erano belli da vedere. Quando volgevano al sole i vetri della carlinga, sprizzavano scintille. Bambini e maestra ne erano come affascinati.
“Laura!“, gridò ad un tratto una voce terrorizzata, “Via, Laura!“.
Franz s’era affacciato alla baracca del posto-radio. Aveva visto il gruppo indifeso e il volteggiare sospetto degli aerei. Il grido gli era uscito dall’anima.
Come se la sua voce avesse tirato invisibili fili, i ragazzini si staccarono da Laura e si sparpagliarono come foglie portate dal vento, scovando angoli d’ombra in cui rintanarsi col cuore in subbuglio.
Per ultima si mosse Laura. Pareva che il terrore l’avesse tenuta inchiodata al centro della piazza.
Vide Franz correre come un pazzo verso di lei. Allora fuggì lei pure, riparandosi sotto l’arco di un portone.
Un attimo ancora, poi nessuno capì più nulla. Uno sfolgorio di sole scese, scese, scese. Una sventagliata di colpi si sparse a raggera, spargendo schegge e frantumi tra nuvolette di polvere.
Poi più nulla.
L’aereo lucente si alzò nel sole e sparì raggiungendo i compagni che già spaziavano nell’azzurro di quello splendido cielo lombardo.
Quasi subito accorsero dai campi donne affannate e uomini col batticuore.
I bimbi si alzarono storditi. Franz sollevò un piccino che piangeva e lo ripulì dalla polvere col suo fazzoletto.
Laura, bianca come un cencio, osservava il centro della piazzetta, là dove prima erano fermi i bambini, c’erano alcune graffiature nel terreno. Sul muro della scuola, sui tronchi degli alberi che la fiancheggiavano, erano chiari i segni della mitragliatrice.
“Questo è odio“, disse come fra sé.
“O sì, questo è odio, terribile odio … “, le rispose Franz che l’aveva udita.
E aveva gli occhi duri, quasi cattivi, mentre fissava il cielo.
Il mitragliamento a Vecchia Strada turbò molto gli animi Ne parlarono anche i giornali della zona. Quell’inutile sfoggio di barbarie venne condannato da tutti.
A Laura lasciò un tremore nell’anima, che offuscava la sua solita serenità. Ella, che non aveva mai saputo odiare, temette di esserne capace. Inutilmente cercava nel suo intimo una giustificazione al gesto inumano.
“Avranno sbagliato,“ si diceva, “ il pilota avrà perso la direzione, ci avranno scambiato per soldati.”
Ma ciò era assurdo e anche ridicolo. Se ne rendeva conto e sentiva ingigantirsi nel cuore quella incapacità di perdonare, che non era mai stata nel suo carattere.
“Temo di diventare cattiva”, confessò un giorno a don Angelo.
“Male, male, figliola!“, la rimproverò bonariamente il prete, “sarebbe un gran peccato, ragazza mia!“.
Don Angelo era il Parroco del paese. Piccolo, rotondo, roseo, passava con la sua veste un poco stinta lungo i viottoli di campagna, infaticabile.
Teneva il tricorno, il classico berretto da prete, ben indietro sulla nuca e la fronte, troppo ampia per la precoce calvizie, riluceva tutta. Il suo volto ridente, dalle guance colorite e rubiconde, ispirava fiducia e serenità.
“E’ più largo che lungo!“, dicevano i contadini.
Ma lo dicevano senza cattiveria e don Angelo, che lo sapeva, scuoteva il capo in tono di scherzoso rimprovero, mettendo a repentaglio la stabilità del suo tricorno.
Il sacerdote aveva l’abitudine di camminare con le braccia aperte, come per accogliere in un gesto d’amore, chiunque incontrasse. E così, grande come il suo abbraccio, doveva avere il cuore.
Abitava in una minuscola canonica a ridosso della chiesa. Come facesse a muoversi lì dentro, era un mistero. Eppure in canonica egli trovava il posto per tutti: dal gatto al cagnolino, dai piccioni ai pulcini, dal mendicante al bimbetto che non imparava la dottrina, dal fuggiasco politico all’ ufficiale tedesco che veniva per discutere del dogma cristiano.
Una vecchissima Perpetua, ciabattando, trascinava i suoi molti anni da una stanzetta all’altra.
Sorda come una campana, era costretta a lasciare costantemente aperta la porta di casa, perché lo scampanellare del visitatore neppure la sfiorava. Così in casa di don Angelo chiunque poteva entrare senza essere annunciato.
“Non c’è nulla da nascondere, figlioli,“ rispondeva a chi lo rimproverava per questa sua abitudine, “chi viene in casa mia ha certo bisogno di qualcosa e se la trova, meglio per lui … e peggio per me”, aggiungeva sorridendo.
Una volta, infatti, un vagabondo era entrato e, sotto il naso della Perpetua che sonnecchiava, aveva vuotato il cassetto, lasciando don Angelo senza un centesimo.
Unica ambizione del sacerdote era la pittura. Sin da studente coi suoi disegni aveva partecipato a mostre e a concorsi. Quando trovava un po’ di tempo, gli piaceva creare sui fogli mondi sconosciuti, con piante, fiori, colori e volti di bambini. Sicché quando, a Vecchia Strada, si era trovato con una chiesa nuda e bianca, il suo cuore aveva tremato di emozione. Finalmente gli era mandata da Dio l’occasione di popolare, con le creature della sua fantasia, le pareti di un tempio.
La chiesetta si alzava con le sue semplici linee al di sopra del piccolo colle. Vista da lontano pareva nascere, candida e coraggiosa, dalle onde del fiume.
Don Angelo aveva comperato pennelli e colori, si era procurato scale e impalcature, poi, con una tunica rappezzata, era salito lassù, fiero come un sovrano ed aveva cominciato i suoi lavori.
Andava a rilento, poiché amava le sue creature e le faceva belle, complete, le accarezzava col pennello e gli spiaceva separarsene quando il dipinto era ultimato.
In quei giorni di mezzo settembre, gli restava da dipingere l’ultima Cappella, la più cara al suo cuore: quella di San Francesco.
La statua del Santo, piuttosto bruttina, in verità, scrostata e stinta, stava da anni sull’altare. Nella penombra poteva anche sembrar bella e don Angelo lo sapeva. Per il buon cuore della sua gente quel San Francesco non aveva difetti, ma al suo animo d’artista la cappelletta dava un senso di freddo e di desolazione. Da mesi egli veniva meditando, in silenzio, sui due dipinti che avrebbero coperto le pareti laterali. Già le vedeva: una tutta viva d’uccelli, frusciante di teneri cespugli, sorridente di fiori sui prati. E il Santo al centro: semplice come i passeri a cui andava predicando, luminoso nel volto come il sole che dava colore ai fiori, lieve come la brezza tra il fogliame.
L’altra parete doveva avere lo sfondo cupo: dal bosco era venuto il lupo e tutta la natura tremava di paura. Ma, sul viottolo, il Santo alzava la mano a benedire e la ferocia del lupo si ammansiva.
Quest’ultimo quadro, però, lo lasciava alquanto perplesso. Lo faceva e lo rifaceva nella sua immaginazione. Toglieva e aggiungeva , arricchiva e spogliava. Non aveva pace.
Spesso i parrocchiani lo trovavano lì, assorto, davanti al Santo. Che facesse o che dicesse, quando scuoteva il capo o muoveva le labbra, essi non comprendevano.
“Il Prevosto ha qualche pensiero” si sussurravano l’un l’altro, “e prega San Francesco.”.
Le donnette in pena andavano allora ad accendere un lumino, perché il Santo facesse la grazia a don Angelo, poveretto.
Quando il Parroco se li vedeva là, questi lumini tutti accesi, sorrideva tra sé e socchiudeva gli occhi : le fiammelle danzavano, si scomponevano attraverso le sue palpebre abbassate, invadevano la nuda parete e riempivano di stelle il bosco che ancora non c’era.
Don Angelo, allora, s’accorgeva di sognare troppo e umilmente chiedeva perdono al Signore.

* * * * *

Quand’era il tramonto, Vecchia Strada pareva un paesaggio da cartolina.
Il sole incendiava il cielo e inondava di rosso la campagna, colorava deliziosamente le guance dei bambini e metteva scintille negli occhi delle donne.
Le facciate delle case si tingevano di rosa. Le mucche tornavano dai pascoli a passo lento, col campano appeso al collo, che suonava tranquillo. Dalle finestre aperte sulla via e dalle porte le donne spiavano l’arrivo degli uomini, poi gettavano la farina nell’acqua bollente dei paioli di rame.
Veniva dal fiume una brezza leggera, portando sempre qualche canzone che si dondolava nell’aria con malinconica nostalgia: nostalgia d’altri tempi e d’altri giorni, quando la guerra non c’era e non c’erano posti vuoti attorno alla tavola imbandita, quando l’anima era più serena e il cuore più buono.
Settembre era davvero bello nel piccolo paese.
Don Angelo se lo godeva con la serenità di un fanciullo. Ed anche Franz. Erano due creature che, pur così diverse, ancora si inebriavano di luce e di bellezza, come due assetati mai sazi.
Il primo lo faceva d’istinto, senza rendersene quasi conto, per naturale semplicità di spirito.
L’altro assaporava quegli ultimi sprazzi con l ’avidità di chi teme di morire di sete nel gran deserto della vita. Ed infatti per Franz la vita poteva diventare un deserto, egli lo presagiva. Si sentiva, talvolta, come una foglia trascinata, senza scampo, dalla bufera. Quando queste crisi di sconforto lo assalivano, gli lasciavano l’anima amara. E allora se ne andava, solo, lungo i viottoli, verso il fiume. Camminava sull’argine, specchiandosi nell’acqua verde azzurra e pian piano l’anima si calmava. Il silenzio l’avvolgeva in un mondo tutto suo.
Poi, rifattosi sereno, tornava al paese e ogni volta ne ammirava, come fosse cosa nuova, la chiesetta ardita, la breve strada fiorita di bambini, le vecchiette al sole, l’odor di cucina casalinga che usciva dalle finestre spalancate.
Andava a sedersi, allora, sotto il gelso, a fianco della scuola, dove Laura ricamava o leggeva.
“Salve, Franz,“ lo salutava la fanciulla, “non vi ho visto tutt’oggi. Un po’ triste, forse?”.
“Ora è passata, Laura. Vedete? Troppo spesso cerchiamo la felicità intorno a noi, e sbagliamo. Essa è dentro di noi, qui,“ e si toccava il cuore. “E’ tutto qui il segreto”.
Laura taceva: forse non lo comprendeva abbastanza.
Quasi sempre accadeva che la giovane maestra e l’ufficiale, la sera, dopo cena, si intrattenessero a parlare davanti alle scuole. Laura portava fuori due sedie ed essi stavano di fronte alla campagna ascoltandone i mille piccoli rumori. Spesso nessuno dei due parlava. Lunghe pause di silenzio cadevano tra loro e ognuno seguiva i propri pensieri.
“Io sto bene con voi, Lauretta … “.
“Ed io con voi, Franz … “.
“Vorrei che mi parlaste di voi, se vi fa piacere.”.
Egli allora cominciava a narrare: la sua vita di ragazzo, la sua casa di campagna presso Amburgo, sua madre, le sue fantasie di allora …
Qualche volta non riusciva a trovare la parola esatta e allora Laura l’aiutava, sorridendo.
L’oscurità calava pian piano ed essi se ne trovavano avvolti quasi all’improvviso. Le ultime lucciole e le stelle erano ormai gli unici lumi. Vecchia Strada s’era addormentata.
“Vorrei che questa fosse un’isola, sola e sconosciuta, per viverci in pace con tutti i miei sogni”, diceva Laura sommessa.
“Non occorre l’isola, Lauretta. La portiamo dentro di noi l’isola dei sogni, e il riconoscerla può darci la felicità.“.
Passava sempre, ultimo viandante, don Angelo, che tornava dall’aver detto il Rosario al cimitero.
Sostava presso di loro e spesso accettava di sedersi. Franz non era cattolico, ma col suo animo d’artista, ammirava la poesia e la bellezza delle feste cristiane. E don Angelo, che, ingenuamente, sperava di far di lui un credente, metteva nei suoi discorsi tanto slancio, che Laura nel buio ne sorrideva.
Nessuno più vegliava a Vecchia Strada quand’essi si lasciavano, ogni volta fatti più amici e ogni volta più ammirati gli uni degli altri.

V

V °

Alla fine della prima settimana di ottobre si riaprirono le scuole. Laura attese i suoi alunni sulla porta della classe. Michele c’era, come sempre. Troneggiava in mezzo ai piccoli compagni, come un pastore in mezzo a un gregge di agnelli.
“Maestra“, le sussurrò all’orecchio, “ti devo dire una cosa.”.
Aveva un’aria così misteriosa, che Laura ne rise.
“Non ridere, maestra!”, la rimproverò il ragazzo, “E’ una cosa importante, sai!“.
Laura l’accarezzò sui capelli:
“Va bene, Michele, dopo mi dirai.“.
Ma una volta in classe se ne scordò. Il gran segreto di Michele scomparve dietro le aste da insegnare ai piccini di prima, la tabellina da dettare a quelli di seconda e i verbi da coniugare con quelli di terza.
Ella era, infatti, la sola maestra di Vecchia Strada e riuniva tra i suoi banchi tutti i fanciulli con obbligo scolastico. Le classi successive le avrebbero poi frequentate al capoluogo.
Ma Michele era inquieto e la maestra avrebbe dovuto accorgersene: dimenticava le piccole incombenze che erano sempre state sue, non raccoglieva il gesso se cadeva, non cancellava la lavagna e lasciava che il sole scherzasse tra i biondi capelli di Laura, senza correre ad avvicinare le imposte.
A mezzogiorno, quando il campanile rovesciò sul paese la sua cascata di suoni, tutti i ragazzi sciamarono sulla piazzetta e raggiunsero rapidamente la propria casa. Già Laura stava per chiudere il portone, quando si trovò davanti Michele, nascosto nell’atrio in penombra.
“Maestra, non ti ho detto ancora quella cosa“.
“Già. E’ proprio tanto importante, Michele? Non è meglio andare a mangiare, ora?”.
“No, prima te la devo dire. Poi vado a mangiare.”.
“Ebbene, vieni in casa. Intanto che preparo, tu mi racconti. Va bene?”.
In silenzio il ragazzo la seguì. In cucina c’era tutto da preparare. Laura accese il fornello, mise la pentola sulla fiamma. Stese la tovaglia, preparò piatti, posate, bicchiere.
“E allora, maestra, te la dico questa cosa, sì o no?”.
La voce del ragazzo tremava di rancore. Mai aveva sentito Michele parlare così!
Laura s‘impressionò.
“Certo Michele. Sediamoci qui e racconta.”.
Egli sedette, composto e solenne. Si schiarì un po’ la voce e si guardò attorno, con fare circospetto.
“Maestra, giù al fiume c’è un uomo che è scappato di prigione.”.
“Che dici, Michele!“.
“L’ha detto mio fratello.”.
“Quando l’hai sentito?”.
“Stanotte.”.
“Come ha detto, Michele, tuo fratello?“.
“Ha detto così, maestra : -madre, domani mattina presto preparami un po’ di polenta e del salame. Nella boschina c’è un poveretto mezzo morto. E’ scappato di prigione e lo cercano. Ha paura di essere preso.- La mamma ha detto di sì. Io ho sentito perché ero sveglio. Cosa facciamo, maestra?“.
“Oh, Michele, sai che è cosa grave ciò che dici? Sei certo di aver capito bene?”.
“Maestra!“.
Offeso il ragazzo si alzò. C’era qualcosa nel suo sguardo innocente, che stupì Laura e la commosse.
“Scusami, Michele. Ora va a mangiare. Ci penserò io, vedrai. Ma non dire niente a nessuno, capito? Per carità, taci, taci con tutti.“.
“Non pensarci, maestra.“.
“Bravo. Corri a casa ora.”.
Quando fu sola, esitò un poco. Poi, decisa, spense il fornello e uscì, dirigendosi verso la canonica.
Giungendo in fondo al paese la strada si biforcava. Un ramo, quasi un viottolo, in dolce discesa, andava fino all’argine tra spessi cespugli di robinie. L’altro, in ripida salita, portava alla chiesa, che era preceduta da una piazzetta rotonda riparata da un muretto.
Don Angelo era là, chino in avanti, a scrutare giù dalla collinetta, tra gli arboscelli spinosi. Osservava con tale ansia, che non avvertì i passi di Laura sulla ghiaia.
Si sporgeva al di là del muretto e la veste gli lasciava scoperte le gambe dai calzerotti neri e le scarpe infangate.
“Buon giorno, reverendo.”.
Egli, senza voltarsi, agitò una mano con forza, facendo segno di star zitta, per carità.
La fanciulla si avvicinò in punta di piedi e si chinò lei pure a guardare.
C’erano foglie secche, sterpi, spini, qualche raro fiore autunnale. Null’altro. Chissà cosa ci vedeva don Angelo!
“Che c’è, reverendo?”, sussurrò.
“Là, guardi là … “ segnò col dito verso un mucchietto di foglie giallastre.
“Sì … “.
“Non vede?“.
“Ma …“.
“Ma c’è un passero! Dev’essere ferito. Ha paura, poveretto … “.
Infatti qualcosa tremava laggiù. Scarruffìo di piume, o agitarsi di fogliame caduto?
“Se potessi passare tra questi spini, andrei a prenderlo. Ma son troppo grosso, farei rumore.”.
Si drizzo e guardò, sospettoso, verso la canonica.
“E poi mi strapperei la veste …“.
Si capiva che la vecchia Perpetua lo teneva ancora in soggezione.
“Potrei andare io, reverendo.“.
“Benedetta figliola! Non poteva dirmelo prima?“.
Laura sorrise. Agilmente scavalcò il muretto, che scendeva a precipizio per un paio di metri.
“ Faccia piano … Se si spaventa, scappa … “.
Ma ella sapeva come fare. Decine di volte aveva visto i suoi ragazzi calarsi così, mettendo un piede dopo l’ altro nelle sconnessure del vecchio muro ed afferrandosi ai cespugli.
In breve fu giù. Le foglie crocchiarono leggermente. Uno sbattere d’ali le frullò quasi sul viso.
Tese le mani ed il passero, col cuore in subbuglio, vi rimase preso, inconsapevolmente.
“Brava“, gridò il parroco, “venga su, le tendo la mano.”.
Quand’ebbe l’uccello sul cuore, respirò di sollievo:
“Era mezz’ora che lo stavo a guardare. Lo porto in casa e guardo cos’ha.“.
“Reverendo, io dovevo parlarle di una cosa grave e urgente“, si affrettò a dire Laura.
“Davvero? E allora venga in casa, benedetta da Dio, venga dentro …“.
Quando ella ebbe riferito lo strano discorso di Michele, don Angelo si fece serio.
“Non mi vogliono più bene a Vecchia Strada. Altrimenti sarebbero venuti a confidarsi con me. Debbo aver fatto qualcosa che a loro non è piaciuta.“.
Stette un poco pensoso, come in un muto esame di coscienza.
“ Siamo così misera cosa! Sbagliamo e non sappiamo neppure di sbagliare … Ma lei, maestra, ha fatto bene a venire. Ci penso io, ora. Lo vado a prendere e lo porto qua. Dev’essere un ricercato politico … “.
“Avevo pensato, reverendo … se ne parlassimo al tenente? Ne avremmo certo un aiuto.“.
“No, no, figliola! Franz ha un alto senso del dovere. E’ un militare e siamo in tempo di guerra. Non mettiamo dei dubbi nella sua coscienza, figlia mia!“.
Laura restò confusa. Non ci aveva pensato.
“Perdoni, don Angelo. E se avrà bisogno di me, ci conti.“.
“Grazie, e stia zitta, zitta con tutti!“.
“D’accordo. La riverisco.“.
Uscì nella stradetta piena di sole. Già i bambini l’avevano invasa, schiamazzando e rincorrendosi.
Laura non aveva ancora mangiato, ma s’accorse di non avere più nemmeno appetito. Si sentiva l’anima triste. E non sapeva spiegarsi il perché.
A casa trovò che era giunto il postino. Le aveva infilato sotto l’uscio una lettera di Nannina. Ella era a Milano ormai, pronta a ricominciare le lezioni e diceva che avrebbe avuta assegnata una prima classe. Si era sistemata presso la stessa famiglia degli anni passati ed invitava l’amica ad andarla a trovare nei giorni di vacanza.
Raccontava, in quattro pagine fitte, impressioni e fatti con tanta vivezza, che la stanza sembrava, di colpo, essersi trasformata. Pareva di vederla, Nannina, per le strade della città.
Laura pensava che tutti dovessero voltarsi a guardarla.
“La mia padrona di casa“, scriveva, “ha una bimbetta che quest’anno verrà nella mia classe. Si chiama Rosalia. Una bambola, ti dico. S’è fatta ancora più graziosa durante questa estate. Ce ne andremo a scuola insieme e ci daremo molta importanza, vedrai. Rosalia ne è tutta agitata. Se pensassimo sempre che grande cosa è per i bimbi la scuola! Non la prenderemmo mai alla leggera.“.
Con quest’ultimo pensiero nella mente, Laura si apprestò a riaprire il portone, poiché il campanaro di Vecchia Strada non poteva sapere che la maestra non aveva ancora mangiato e che si sentiva l’anima triste, e stava già suonando a distesa la sua campanella.
“Che grande cosa è per i bimbi la scuola!“.
Eccoli lì, i suoi scolari, tutti in fila, con gli occhi fissi su di lei, come se da lei s’aspettassero tutto: serenità, sicurezza, comprensione, vita. Tutto.
A Laura venne voglia di piangere.
Oh, se avesse potuto andarsene, scendere al fiume, cercare nel bosco quel poveretto che vi moriva di fame e di paura, e portarlo al Tenente e dirgli: “E’ un nostro fratello, Franz. Che importano i regolamenti, gli ordini, la guerra? Ha bisogno di noi. Aiutatelo, Franz.“.
Ma non poteva.
Tra i cuori che si cercavano stava una legge assurda, crudele: la legge della guerra.
Che valeva, allora, insegnare ai bambini -Amatevi gli uni gli altri come fratelli-, se poi si doveva dire : -Quello però è un nemico. Lasciatelo perdere-.
Che valeva ripetere:
“Siamo figli dello stesso Padre“, quando ti venivano dal cielo uomini come noi che ti sventagliavano addosso una scarica di mitra?
Quante domande urgevano nel cuore di Laura: e tutte senza risposta. Le pareva che i suoi ideali le stessero tutti quanti crollando addosso.
Il cicalare dei bimbi ora le dava noia.
Gridò, più forte di loro:
“Basta!“.
Zittirono tutti, coi grandi occhi spalancati.
“Maestra“, le sussurrò Michele, “non fare così. Mi fai spaventare, sai?“.
Don Angelo non andò, quella sera, a recitare il solito Rosario al cimitero. Laura e Franz l’attesero invano. A quell’ora egli era ancora sull’argine, ma nessuno del paese lo sapeva. Girava tra i cespugli, scrutava dietro gli alberi, si chinava verso il fondo dei fossati.
Di tanto in tanto sussurrava:
“Amico … Fratello …“.
Ma non giungeva alcuna risposta.
Già nel pomeriggio, col suo breviario in mano, era andato su e giù lungo il fiume. Si era anche recato a casa di Michele per avere qualche informazione più precisa.
La risposta era stata una sola, diffidente:
“Non si preoccupi, reverendo. Se n’è andato.”.
Non c’era stato verso di levar loro di bocca una parola di più. Che delusione, povero don Angelo. Avrebbe voluto sprofondare, sparire.
“Ma che ho fatto, figlioli? Perché non avete fiducia in me?“.
Ma le labbra stavano serrate, come se tutta la famiglia si fosse passata parola. Così al Parroco non era restato che andarsene col cuore pesante.
Era ritornato sull’argine quando già imbruniva ed aveva ripreso la sua paziente ricerca, chiedendo ad ogni passo perdono a Dio, perché doveva aver certamente peccato, forse di superbia, o di impazienza, o per mancanza di carità, se la sua gente diffidava in tal modo di lui.
A tratti, sembrandogli di udire un rumore, tendeva l’orecchio. Bastava che svolasse un passero o si muovesse una lucertola, perché in lui risorgesse la speranza. Inutilmente.
Abbaiò un cane, dall’altra parte del fiume. Una civetta singhiozzò dalla cima di un pioppo. Qualche rana si tuffò in acqua al rumore dei suoi passi.
Intanto si era fatto così buio che era impossibile continuare la ricerca. Non c’era luna in cielo e non sarebbe spuntato che molto tardi il primo quarto d’ottobre. Troppo esile, ad ogni modo, la sua luce, per poter vedere nell’intrico del bosco.
Chiamò un ultima volta:
“In nome di Dio, fratello, rispondi!“.
Attese trattenendo il fiato. Ancora nulla.
Allora le lacrime, che per tutto il giorno gli avevano gonfiato il cuore, sgorgarono senza ritegno.
Poi, a passo lento, si incamminò verso Vecchia Strada.

* * * * *

“Maestra“, disse Michele la mattina dopo, a scuola, “lo sai che mio fratello mi ha picchiato, ieri, perché ti ho detto quella cosa?“.
“Mi spiace tanto, Michele. E perché l’ha fatto?“.
“Non dovevo dirtelo, perché tu vai col tedesco.”.
“Ma Michele! Cosa stai dicendo?“.
“L’ha detto mio fratello, maestra.”.
Poi, con l’ingenuità dell’innocenza, si sedette tranquillo nel suo banco, estrasse il quaderno e si preparò alla lezione. Non si avvide che Laura si era fatta pallida. Nessuno dei bambini se ne accorse. Stavano cinguettando come passeri, rubandosi quasi le parole di bocca.
Le ore di quella giornata trascorsero lente, pesanti, come fatte di piombo. Laura se ne stette quasi sempre davanti alla finestra, guardando lontano. Un tumultuare di pensieri e di rancori, di ribellioni e di lacrime le faceva battere forte il cuore. La gente che passava sulla strada, lungo i viottoli, nei campi le parve improvvisamente nemica.
“Non dovevo dirtelo perché vai col tedesco!“.
“Vai col tedesco! Vai col tedesco!“.
Come far capire a questa gente che non c’è straniero nel mondo di Dio, che non dobbiamo innalzare barriere, che l’anima non ha confini?
Ma lei non poteva spiegare niente a nessuno. Era un controsenso perché c’era la guerra. Era la guerra che tracciava i confini, anche quelli del cuore. Diceva:
“Di qua sono amici, di là sono nemici.“.
E come rimproverare alla povera gente di Vecchia Strada quell’odio che, insensibilmente, prendeva un po’ tutti, se lei pure, la maestra, già capiva di cominciare ad odiare? Poteva dire: “Perdonate”, lei che non sapeva più perdonare?
Quando venne l’ora di rimandare i bambini a casa, Laura aveva fatto la sua scelta. Voleva essere sincera con se stessa. Stimava, apprezzava, capiva Franz. Ebbene, gli sarebbe rimasta vicina, qualunque cosa fosse accaduta. L’amicizia di Franz stava d’altronde per divenirle una necessità.
Lasciò sciamare i suoi alunni, guardandoli con occhi più sereni. Dalla baracca Franz la vide e si levò il berretto salutandola.
Don Angelo passò, quando fu buio, col suo solito rosario tra le dita.
Andava verso il cimitero, come ogni sera. Laura, che l’aveva atteso, lo pregò di permetterle di accompagnarlo.
L’aria era già fresca.
“Si copra, figliola, tra i campi c’è umido.“.
Insieme percorsero la strada che era poco più d’un viottolo, pregando sottovoce. Don Angelo diceva -Ave Maria piena di grazia …-, Laura rispondeva -Santa Maria, madre di Dio, prega per noi …-.
Non c’erano più lucciole, ormai, e neppure i grilli si udivano più. Dal fiume veniva una leggera foschia e la brezza scrollava dai pioppi le prime foglie ingiallite.
Il cancello del cimitero era chiuso e solo un lumino mandava gli ultimi guizzi sopra una tomba recente. Don Angelo si afferrò alle sbarre, appoggiandovi la fronte. Pregò in silenzio, dimentico di tutto ciò che lo circondava.
Laura l’attese, seduta sopra una panchina, con la schiena al camposanto e gli occhi alle stelle. Quand’era bambina la mamma le diceva che quelle erano le finestre a cui si affacciavano gli angeli per guardare i bambini buoni. E da quando la mamma era morta, ella aveva imparato a scegliere la stella più bella sopra la sua casa, per dire:
“A quella si sta affacciando la mamma.“.
La voce del parroco la scosse :
“Torniamo, figliola?“.
Ripresero a camminare, tutti e due un poco assenti.
“Lo sa, maestra,“ disse ad un tratto il prete, “che quel poveretto non c’era più ieri sera?“.
“Davvero? Mi spiace, don Angelo.“.
“Pazienza, figliola …“.
“E dove è andato?“.
“Lo sa Iddio …“.
Non parlarono più fino alle scuole. Franz non c’era ad attenderli. Si salutarono con un -buona notte- pieno di tristezza.
Poi il parroco se ne andò, con la sua rotonda figura un po’ buffa, sotto le rare lampade schermate di blu che punteggiavano la via.
Laura entrò in casa, stanca come se avesse percorso chilometri e chilometri. Doveva scrivere a Nannina, ma non se la sentiva. Forse era meglio rimandare a domani. Domani era un altro giorno e si spera sempre che il giorno nuovo sia migliore di quello che se n’è andato.
L’indomani pioveva.
Il cielo si era rannuvolato nella notte, senza che nessuno se l’aspettasse, l’acqua veniva giù cheta e grigia, come fosse anch’essa stanca e annoiata d’essere al mondo. I bambini vennero a scuola con le scarpe infangate e i grossi ombrelli stillanti. Parevano, visti da lontano, enormi funghi in cammino.
Il paese era deserto. Solo all‘interno dei cortili, sotto i grandi portici, uomini e donne andavano e venivano, si chiamavano a voce alta, si stiravano pigramente le membra, felici, sotto sotto, dell‘ inatteso riposo.
Continuò a piovere per tutto il giorno.
Rapidamente i viottoli divennero impraticabili. Lungo l’unica via scorrevano rivoli d’acqua giallastra ed i cortili presentavano un ben misero spettacolo, con paglia fradicia, letame e fango puzzolenti.
Alla sera faceva già freddo. Un umidore malsano penetrava nelle ossa e veniva il desiderio d’accendere il fuoco nelle case.
Anche Laura aveva nella sua stanzetta un enorme camino, di quelli tipici delle campagne lombarde.
Michele portò giù dal solaio la legna e la fanciulla accese un gran fuoco, che subito crepitò con festosa allegria, riempiendo di sfavillanti monachine la cappa nera. Poi spostò la poltrona e la mise proprio davanti al ceppo acceso e vi prese posto, con Michele accoccolato sul gradino.
La pioggia picchiettò ai vetri per vari giorni, con rare interruzioni: pareva un passante malinconico che chiedesse di entrare.
Tra la fanciulla e il ragazzo c’erano pochi discorsi, ma nessuno dei due ne sentiva la mancanza. Ognuno aveva un suo mondo e poteva viverci in pace.
Una sera vennero don Angelo e Franz, insieme. Picchiarono ai vetri e quando Laura ne vide i volti sorridenti al di là dell’inferriata, si rianimò tutta. Corse ad aprire, mentre Michele gettava altra legna sul fuoco. I due amici entrarono, stillanti d‘acqua e scrollandosi di dosso freddo e umidità.
“Benedetta figliola, io e il tenente la credevamo morta!“.
“Che dovevo fare, reverendo? Qui ho la casa, qui ho la scuola. Michele mi aiuta ed io impigrisco.“.
Don Angelo si accomodò sulla poltrona.
“Che bel fuoco, mette allegria! Ne sentivo proprio il bisogno.“.
Si distese, allungando le gambe verso la fiamma.
“Che facevate, Lauretta, qui sola sola?“, chiese Franz sedendosi sul gradino del focolare.
“Cercavo l’isola deserta“, rispose sorridendo.
“E l‘avete trovata, almeno?“.
“Non ancora, ma l’ho intravista.“.
“Allora siamo stati importuni, non si doveva venire.“.
“Oh, no! Che dite?“.
“Ma che strani discorsi fate, ragazzi? Che c‘entrano le isole deserte?“ intervenne il parroco.
Laura e il tenente risero.
“Come se Vecchia Strada non fosse abbastanza solitaria. Ora che piove , poi …! Pare dimenticata da tutti.“.
“Pare, ma non è,“ commentò Franz.
“No, davvero“, continuò Laura. “C’è sempre qualcuno che ne scopre l’esistenza: odio, gelosia, rancore, sospetto. Questi strani visitatori vengono anche da lontano a popolarla. No, no. Ci vuol altro, don Angelo! Occorre veramente l’isola deserta. Bisognerebbe potercela fabbricare.”.
“Non fabbricarla, ma scoprirla. C’è già, Laura. E’ dentro di noi“, rispose il tenente.
Don Angelo si stirò con aria soddisfatta.
“Non parliamo difficile, ragazzi! C’è già, al di sopra di noi, Colui che dispone ogni cosa per il meglio. Occorre soltanto confidenza e abbandono. Tra le Sue mani siamo come dei bambini addormentati tra le braccia della mamma. Certo, certo …“, aggiunse con un velo di malinconia , “ci sono momenti nella vita in cui si vorrebbe chiedere il perché al Signore, in cui la vicinanza dei nostri simili ci procura sofferenza, ma sono attimi, solo attimi passeggeri.“.
Michele si andava appisolando. Laura lo scosse dolcemente e lo accompagnò fin sulla porta, osservandolo mentre attraversava la strada ed entrava nel portone del suo cortile.
Quando rientrò i due uomini stavano parlando dei più recenti bombardamenti.
“Da tanto tempo non avete notizie di Nannina?”.
“Oh no, ha scritto anche stamattina. Una letterona! Vorrei avere la sua esuberanza e la sua gioia di vivere. Vede il bello in ogni cosa. Mi parla degli allarmi aerei con una serenità che commuove. Io sarei terribilmente paurosa. Cosa vuol dire, reverendo? Che non ho fiducia in Dio?“.
Rimasero accanto al fuoco finché questo si consumò. La notte, fuori, era scesa parlottando con la pioggia, sottovoce.
Quando Laura accompagnò i due amici alla porta, s’era alzato un leggero vento. Una imposta sbatteva e, di tanto in tanto, pareva che il cielo schiarisse.
“Domani avrà smesso“, sentenziò don Angelo, “già le nuvole se ne stanno andando, guardate.“.
“Speriamo, reverendo.”.
“Buona notte, amici!“.
“Buona notte!“.
Laura dormì male quella notte. Il vento s’era fatto più forte e c‘ era quell‘imposta che non voleva star ferma. Pareva un colpo d’ala picchiato con forza in qualche angolo della casa. Il ticchettio della pioggia, che non smetteva ancora, era più rado, ma più pesante nel silenzio notturno.
La fanciulla si voltava e rivoltava nel letto e, se appena si appisolava, le appariva in sogno Nannina. Nannina che correva, ridendo, tra il cadere delle bombe. Nannina che la chiamava tra un fragore d’uragano. Nannina che si stringeva sul cuore bambini e bambini, tanti da esserne soffocata.
Allora Laura si metteva a urlare e si svegliava. Poi si accorgeva, con sollievo, che era soltanto il vento a far rumore e cercava di riassopirsi.
Verso l’alba non c’erano più nuvole in cielo. Il vento l’aveva spazzato con forza. Per quel motivo aveva urlato tutta la notte. Ma ora non si poteva fargliene un rimprovero. Infatti laggiù, verso nord, i monti scintillavano come gemme nel primo sole.
Il mondo era lavato, pulito, buono. Ridevano i pioppi vicino al fiume. I prati luccicavano, le siepi erano rosse di bacche, ogni filo d’erba aveva la sua perla iridescente. Pareva il giorno più bello mandato da Dio sulla terra per riaprire gli animi alla speranza.
Ed era, invece, l’alba del 20 ottobre 1944.
Giorno di tragedia e di sangue.

VI

VI°

Da quando Nannina Silenti si era stabilita in città per occupare il suo posto di maestra, alloggiava presso una famigliola composta da padre, madre e una bambina.
Il padre era militare e da parecchio tempo non tornava a casa, né dava notizie di sé. La madre, una esile donna stanca e sciupata anzi tempo, s’era adattata ad affittarle una stanzetta per arrotondare un poco il salario che percepiva lavorando presso un negozio di calzature. La piccina, Rosalia, restava affidata per la maggior parte della giornata a Nannina, poiché la mamma usciva di casa al mattino e rientrava solo verso sera.
L’abitazione sorgeva alla periferia di Milano e gli innumerevoli ragazzi che popolavano il rione, avevano a disposizione molto verde per giocare.
Ogni mattina Rosalia e Nannina se ne andavano da casa tenendosi per mano. La signora Maria, la mamma, era già uscita da un po’, dato che il negozio ove lavorava apriva alle otto. Aveva incartato il suo scarso desinare, aveva baciato la sua piccina ed era volata giù dalle scale. Abitavano al quinto piano e non c’era ascensore. Quei gradini ella li sfiorava appena , sempre col cuore in gola. Eppure ringraziava il cielo d’averle fatto trovare quel lavoro, poiché in tal modo non aveva il tempo per pensare e neppure per piangere.
La sua vita passava così, come un fiume troppo rapido, che sbatte la foglia con violenza, logorandola ogni giorno un poco di più, ma senza avere il coraggio di frantumarla e distruggerla.
Maria cominciava a rivivere solo la sera, quando, con le ossa rotte dalla fatica, risaliva quei molti gradini e apriva la porta di casa sua.
Rosalia cinguettava dietro di essa, Nannina canterellava e la tavola era apparecchiata. La prima cosa che chiedeva entrando, era:
“C’è posta?“.
Ogni volta Nannina scuoteva il capo, cercando di mitigare con un sorriso la tristezza della risposta.
Ma Rosalia non lasciava il tempo alla mamma di immalinconirsi. Le saltava al collo e la baciava sugli occhi: sembrava quasi che avesse atteso tutto il giorno quell’istante.
Rosalia era una bimbetta timida e restia. Era difficile farsela amica. Pareva avesse sempre qualche pena nascosta: forse era la lontananza del papà, oppure erano le lacrime frequenti della mamma a darle quell’espressione pensosa. A scuola rideva raramente e quando parlava con le compagne diceva poco di sé e delle sue cose. Ma alla sera, quando sentiva la chiave girare nella serratura , tutto il suo visetto bruno si illuminava e le gambette smaniavano nell’ansia di correre alla porta. Allora sì, trovava mille cose da dire: tutta la sua giornata si sgranava davanti alla mamma con gesti, parole e sorrisi a non finire. Nannina stessa si stupiva che ricordasse tutto con tale precisione, mentre la madre beveva ogni sillaba che usciva dalla bocca della sua bambina.
Soleva dire: “Ringrazio il Signore d’aver trovato te, Nannina. Che ne sarebbe della mia Rosalia se tu non ci fossi?”.
“Abbiamo tanto bisogno gli uni degli altri, Maria . Anche per me Rosalia è necessaria, cosa credi?“.
La cena era sempre assai frugale. Le due donne lottavano continuamente con le tessere annonarie e i generi razionati. Ma era così per tutti e da tempo si erano abituate al pane nero e alla minestra mal condita. Quasi non ci facevano più caso. Per di più la vita in città stava diventando un inferno, poiché gli allarmi aerei si susseguivano sempre più frequenti. Proprio qualche giorno innanzi gli aerei avevano gettato bombe incendiarie tutto intorno alla città, lungo i viali periferici, circondandola con un anello di fuoco ed essa aveva brillato a lungo in una diabolica sarabanda di luci. Tra la gente correva voce che quello era un segnale: il segnale della distruzione.
“Tutto entro il cerchio di fuoco verrà distrutto, dobbiamo fuggire …“.
Così al calare delle prime ombre, altre ombre sconvolte e frettolose si erano avviate l’indomani verso i prati della periferia, come in una interminabile processione di fantasmi. Nannina e Maria avevano guardato dalla loro finestra quel formicolio di umanità impaurita che cercava scampo all’aperto. Tutta la notte esse attesero, alzate, pronte a fuggire se fosse suonato il grande allarme. Ma non successe nulla, forse perché s’era messo a piovigginare e grosse nuvole basse correvano sopra le case.
Col giungere dell’alba l’angoscia passò. La vita di ogni giorno riprendeva. Ed erano vivi!
Febbrilmente Maria aveva di nuovo sfiorato i gradini per correre al lavoro. Di nuovo Nannina e Rosalia, tenendosi per mano, erano tornate baldanzose alla scuola.
Centinaia di bimbi invadevano ogni vicolo, ogni strada, ogni piazza. Erano, come ogni giorno, ignari e felici come se andassero ad una festa.
“La vita si tinge di speranza ogni mattina,“ diceva Nannina alla sua piccola compagna .
Rosalia non capiva, ma alzava verso di lei i suoi grandi occhi da bambola e sorrideva.
Nonostante gli stenti di quell’anno di guerra, la mamma della piccina aveva voluto che prendesse lezioni di piano. Il padre era un appassionato dilettante e sapeva suonare diversi strumenti. Aveva sempre detto che voleva far crescere la figlia con la musica nel sangue.
A Gorla, poco distante dalla loro casa, abitava una giovane insegnante, cieca dalla nascita, che si era appena diplomata in pianoforte. Ella fu scelta come prima maestra di Rosalia. La bimba aveva iniziato le lezioni da un mese e già le sue manine paffute cercavano sulla tastiera le note misteriose, mentre il suo cuore batteva pieno di emozione.
“ Rosalia, “ le diceva la maestra, “ sento il tuo cuore che fa tum-tum. Che succede? Hai paura?“.
La piccina arrossiva e mormorava:
“Oh, no, signorina … “.
Ma in realtà quell’ignoto mondo di suoni in cui si apprestava ad entrare, guidata da una giovane cieca, le appariva misterioso, anche se pieno di fascino. La maestra Rina, che non aveva mai visto i colori, le luci, la dolcezza degli occhi di sua madre, amava passare sul volto di Rosalia le sue dita per seguirne i tratti delicati, per sentire il battere delle sue ciglia, per studiarne sulle labbra il sorriso.
Poi si metteva a suonare, solo per lei, qualcosa di nuovo che alla piccina pareva bellissimo. Sicché alla fine ella diceva:
“Quando sarò grande farò la maestra di piano.“
La scuola elementare di Gorla era sull’angolo, tra due viuzze piuttosto strette. Si diceva che fosse stata, molti anni innanzi, un convento ed infatti, nei sotterranei, si notavano ancora le grandi arcate delle volte e i lunghi corridoi stretti e corrosi.
Ma ai piani superiori la vecchia costruzione era stata tutta ristrutturata. Ampie finestre si spalancavano sulla piazzetta piena di sole, coi gerani sui davanzali e i vetri scintillanti. Le aule erano tutte modernamente attrezzate e le pareti ridevano per stampe e disegni, mentre piante sempre verdi erano disposte lungo i corridoi.
Ma il vero ornamento della scuola erano i bambini coi loro grembiulini bianchi dai grandi fiocchi rossi o blu, coi loro ricci biondi o bruni e i loro visetti sorridenti.
Poiché i bambini erano tanti e le aule poche, a Gorla si facevano i doppi turni di lezione.
Il rione, infatti, si poteva dividere con facilità in due gruppi di case. Il primo comprendeva un vasto complesso di fabbricati, tutto chiuso entro una cinta , simile ad un vero e proprio villaggio. Erano le case della Fondazione Crespi-Morbi, destinate alle famiglie numerose. Infatti, per avervi assegnato un appartamento, occorreva aver un minimo di cinque figli. Da soli, quindi, i ragazzi della Fondazione Crespi bastavano per riempire la scuola di Gorla .
L’altro gruppo comprendeva i restanti bambini del quartiere, provenienti dalle varie strade che si dipartivano da Viale Monza.
La Direttrice didattica aveva perciò stabilito che i ragazzi della Fondazione Crespi si recassero a scuola nel pomeriggio e gli altri a quello del mattino. Così mese per mese: di volta in volta il turno sarebbe cambiato. Pareva una cosa da nulla, una decisione di ordinaria amministrazione, quella presa dalla anziana direttrice:
“Questi al mattino e quelli al pomeriggio”.
Ed era, invece, la mano del destino che segnava con una croce nera i registri della scuola:
“Di qua la vita, di là la morte“.
Ma Gorla, un po’ città e un po’ campagna, neppure immaginava l’orrenda sorte che l’attendeva.
* * * * *

Le mamme di Gorla erano tranquille mentre affidavano i loro bambini, sul portone della scuola, alle maestre che attendevano e per la strada, spesso, dovevano affrettare il passo per adeguarlo a quello ansioso dei piccini. Gran parte di essi giungeva passando sul piccolo ponte del Naviglio, che scorreva appena al di là della piazzetta. Era un ponticello rustico e romantico da cui si ammirava il lungo canale che, nelle mattinate di ottobre, si copriva di un leggero velo di nebbia.
“Il canale fuma!“ dicevano ridendo i bambini.
E per loro era un amico, che li guardava ogni giorno passare, che borbottava ai loro capricci e rideva di sottecchi alle loro birichinate. Passava via svelto ed era sempre uguale e sempre nuovo. Vedeva tutto e sapeva tutto. Accoglieva le barchette di carta fatte dai bambini coi fogli dei quaderni e ne leggeva dettati e problemi, voti belli e voti brutti. Viveva anche lui, si può dire, la vita della scuola, senza dar noia a nessuno e senza fare prediche inutili. Non c’era bambino che, passando, non si fermasse a guardare e le mamme dovevano trattenere i più piccoli perché non si sporgessero troppo.
Nannina Silenti, maestra di prima, era, ogni mattina, la più attesa. Durante il tragitto le si affiancavano bimbe e maschietti, facendo a gara per starle vicino. Le mamme le affidavano i figli e la seguivano poi con gli occhi per un tratto.
C’era sempre, sotto un portone, un ometto giallo e stento, che teneva per mano la sua figliola.
Nannina lo conosceva bene, poiché dal primo giorno lo vedeva là, immobile, ad aspettarla.
Ma quando ella giungeva, non le affidava la piccina come gli altri genitori. Si levava rispettosamente il berretto, muoveva appena le labbra per dire -buon giorno- e le si metteva dietro, tenendo stretta la manina della figlia, come se avesse paura di perderla. Era un po’ ridicolo, pensava la maestra, ma molto commovente.
La piccina si chiamava Marina ed era nella sua classe. Era scontrosa e con un’aria malaticcia.
Nannina si era incuriosita ed aveva cercato nei documenti qualche indicazione sulla sua famiglia. L’aveva creduta orfana di madre. Invece no. La madre c’era. Era viva, almeno.
Aveva cercato di interrogare la piccina con discrezione:
“E’ malata la tua mamma, Marina?“.
Ella le aveva spalancato in viso due occhi spaventatissimi:
“Perché, maestra?“.
“Oh, nulla … Non la vedo mai ad accompagnarti … “.
“Viene sempre papà“, aveva risposto chinando subito lo sguardo.
“Già, vedo … “.
Il discorso era finito lì e Nannina era rimasta con la sua curiosità inappagata.
Anche quando era l’ora di uscita , tra i genitori in attesa, c’era sempre quell’ometto solitario, che non parlava mai con nessuno. Se ne stava sul marciapiede di fronte al portone e i suoi occhi si muovevano con straordinaria rapidità, cercando tra la marea dei bambini, la sua piccina.
Anche la bimba, nel discendere i gradini, correva subito con lo sguardo al solito posto al di là della strada. I due si vedevano, si sorridevano, senza alcun gesto scomposto, solo con gli occhi.
Il padre attraversava la via, la prendeva per mano, sollevava il cappello per salutare e se ne andava a piccoli passi, tenendosi ben vicina Marina.
Nannina ne aveva parlato con qualche collega.
“Mi incuriosisce quell’uomo …“.
“ Ragazza mia“, le aveva risposto una maestra anziana, “non è bene voler entrare a tutti i costi nel mondo del nostro prossimo”.
“Ma la piccina è nella mia classe …“.
“E con ciò?”.
“Se ne sapessi di più, potrei capirla meglio ed aiutarla … “.
“Amala, figlia mia, amala molto. Può darsi che ne abbia bisogno più degli altri. Con l’amore si finisce col capire tutto“.
Nannina ci era rimasta un poco male.
“Amala!“. Ma lei l’amava già quella piccina, eppure non riusciva a toglierle quello sguardo spaurito che le metteva pietà.
Nannina aveva un cuore estremamente giovane e fiducioso: la sua presenza, il suo sorriso, spandevano tra colleghi e bambini un’atmosfera di serenità. Tutti la guardavano con simpatia quando arrivava col codazzo di scolaretti, tenendo occupato tutto il marciapiede per un lungo tratto.
Pareva lei pure una ragazzina, con la zazzeretta nera, corta, col viso senza trucco e le scarpe basse, sportive. Saliva sempre di corsa i gradini della scuola elettrizzando maschietti e femminucce, sicché non pareva che si recassero allo studio, ma ad un gioco a lungo atteso.
Ed era, infatti, un gioco per lei insegnare in una prima elementare. S’era adeguata ai metodi più moderni, con la spavalderia coraggiosa propria dei più giovani. Mentre le anziane colleghe ancora facevano riempire pagine e pagine di puntini, aste, uncini, filetti così che i quaderni sembravano campetti ben arati, diritti, coi solchi perfetti, gli scolaretti di Nannina già scrivevano mamma, sole, fiore ed altre brevi parole con le grosse lettere incerte che andavano su e giù, oltre le righe, come smaniose di prendere il volo.
Dalle pareti dell’aula ridevano, già dai primi giorni di scuola, i cartelloni con tutti i suoni dell’alfabeto.
“Ecco il sole, maestra! E guarda la mela che rossa . . . E l’elefante come è grande!“.
Sui quadernetti alle parole si alternavano i disegni pieni di vita e di movimento: fiori, alberi, case spalancate al sole, prati verdi e mari azzurri con certe barchette simili ad ali di gabbiano in bilico sull’onda. Ogni quaderno era una sorpresa.
Non c’era costrizione nella sua scuola. Ricordava ancora troppo bene l’ansiosa fatica di quando era piccina, nello stare lunghe ore con le mani -in seconda- e lo sguardo fisso alla lavagna. Non voleva che lo stesso senso di oppressione pesasse anche sui suoi alunni. Li lasciava liberi di aggirarsi tra i banchi, di toccare i fiori nei vasi, di affacciarsi alle finestre per seguire il volo delle rondini, di attorniare la cattedra della maestra per sfogliare i suoi libri illustrati. Potevano scambiarsi pastelli e figurine, si aiutavano l’un l’altro, guidando la mano ai più incerti e se uno piangeva, tutti gli erano intorno per consolarlo.
Rosalia era nel primo banco ed accanto Nannina le aveva messo la piccola Marina e stava a vedere commossa i primi approcci tra le due bambine. La timidezza di Rosalia si volgeva, delicatamente, verso la ritrosia un po’ misteriosa dell’altra. Già si scambiavano qualche sorriso, arrossendo se la maestra lo scopriva. Un giorno ella si accorse, persino, che Rosalia portava a scuola, di nascosto, qualche giuggiola che la mamma le regalava e la passava sotto il banco a Marina.
“Ciò che non posso fare io“, si diceva Nannina, “saprà farlo la sua piccola compagna. Bisogna aver fiducia nei bambini“.
E di fiducia lei ne aveva in abbondanza.
Aveva fiducia persino in Giulio, il ragazzo che da tre anni, ormai, ripeteva la classe prima. Egli non aveva conosciuto la mamma, l’aveva perduta quand’era ancora molto piccolo. Il padre, alle prese coi figli da allevare e col lavoro, che lo teneva lontano da casa per molte ore al giorno, aveva affidato i ragazzi ai vicini di casa. Giulio, il più giovane, era cresciuto così, tra la casa di una vicina bisbetica e la strada affollata di monelli. Nella prima aveva imparato a fingere, nell’altra a difendersi a qualunque costo. Aveva l’astuzia pronta e i pugni solidi ed usava l’una e gli altri con troppa frequenza. La cattiva alimentazione di quegli anni di guerra aveva alterato la sua salute e una malattia, superata a malapena, aveva intorpidito la sua intelligenza.
A scuola era irridente, svogliato, astuto ed era il terrore dei maestri di Gorla. In tempi normali lo avrebbero affidato ad una scuola speciale: ma c’era la guerra. Ed essa spazzava via tutti i piccoli problemi che turbavano la vita di quella scuola di periferia. Giulio aveva la mano abilissima e il passo silenzioso per giungere a frugare nelle tasche dei compagni, asportandovi i piccoli oggetti che sono la delizia dei bambini. Strappava, quando la maestra non c’era, i germogli nei vasi dei gerani, nascondeva sotto i banchi topini morti, liberava tra i capelli delle compagne lucertole e cavallette per la gioia di sentirle strillare. Poi sapeva fingere con aria così candida, che Nannina ogni volta si chiedeva come potesse essere stato lui.
Era molto alto, con la testa a pera rapata a zero ed una faccia pallida con due occhi maliziosi.
I suoi quaderni erano veri capolavori. Non vi si vedeva una sola sillaba; pareva che in tre anni di scuola non avesse neppure appreso a fare una -o- tonda, o una -i- col puntino. Ma quelle sue pagine erano terribilmente vive. Ora che aveva incontrato una maestra che dava al disegno una importanza tanto grande, egli poteva sfogare, senza timore d’essere rimproverato, il suo mondo interiore tutto fatto di pupazzetti e bestiole, alberi e montagne, case e motori. Aveva preso un gusto particolare per gli aeroplani. Ad ogni pagina ne appariva uno, o col muso alzato verso il sole, o inclinato nella picchiata come un uccello rapace che si buttasse sulla preda. E tutto intorno pupazzi in fuga con le braccia alzate per il terrore.
A formare uno stridente contrasto con Giulio, c’erano, nella classe, due fratellini gemelli, Giuliano e Daniele, due amori. Piccoli, tondi, rosati, biondi come spighe di grano, con occhi che parevano pezzetti di cielo.
Appartenevano ad una delle famiglie migliori del quartiere. A scuola occupavano il primo banco della fila dei maschietti ed erano così simili, che Nannina non riusciva a distinguerli se non per l’iniziale ricamata in rosso sui grembiulini. Ciò che faceva l’uno, ripeteva l’altro, se uno parlava, l’altro lo fissava attento ed era pronto a proseguire il discorso se il fratello di interrompeva.
Giulio, strano caso, li aveva presi in simpatia. Non era difficile, in verità, avere per loro una predilezione. Ma che Giulio amasse qualcosa al di fuori delle sue monellerie era perlomeno insolito. Ai due piccini non aveva ancora fatto uno scherzo, né detto una parola cattiva. Quando si formava la fila per uscire, li aiutava a mettersi i cappottini e il berretto e per le scale andava sempre a mettersi in mezzo a loro, tenendoli per mano.
Nannina che lo seguiva con occhi trepidanti, non poteva fare a meno di ripetersi, con assoluta convinzione: “Bisogna aver fiducia nei bambini!“.
All’inizio di quell’anno Nannina aveva fatto mille propositi, uno più bello dell’altro ed era smaniosa di tradurli in realtà.
“Benedetta giovinezza“, esclamava la collega anziana scuotendo il capo. “Io mi sento stanca da morire e mezzo impazzita dall’ansia. Con tutto quello che c’è attorno a noi, non mi regge il cuore di far progetti. Ho l’impressione della fine, ragazze mie. Mi sembra così vicina, che ogni entusiasmo mi muore nell’anima prima ancora di esprimerlo in parole”.
Era un’ insegnante agli ultimi anni di servizio. Viveva sola, ma questo non l’aveva resa arida d’affetti: una maestra non potrebbe esserlo, neppure se volesse. La schiera dei bimbi popolava la sua casa anche di notte. Anche nel buio occhi limpidi e curiosi la circondavano, la interrogavano, le tenevano compagnia. Per questo la vecchia maestra di Gorla non aveva avuto il tempo di inaridire in solitudine.
Nel gruppetto delle colleghe di Nannina ve n’era anche una che era sposa da poco. Aveva sempre un’aria sognante e quando parlava trovava modo, ogni volta, di introdurre nel discorso il nome del marito. Al suonar della campanella, volava giù dai gradini, usciva sulla via e ticchettava svelta sul marciapiede, ansiosa di giungere a casa. Insegnava in una quarta femminile e la sua aula pareva, a sentire la Direttrice, una gabbia di usignoli. Aveva invitato, all’inizio delle lezioni, le colleghe a visitare il suo appartamentino. C’era stata solo Nannina, fino ad ora, poiché nell’andare a casa vi passava proprio davanti. Era una casetta da nulla, in un cortile vecchiotto e scuro, zeppo di finestre e ballatoi. Ma dentro c’era il sole anche se fuori pioveva.
“ Un sogno di casetta “, spiegò Nannina alle colleghe. “ Si respira solo amore là dentro. Sconsigliata la visita alle zitelle“, aveva terminato ridendo. “ Verrebbe voglia di piangere al pensiero di ciò che si è perduto“.
Nel gruppo che l’ascoltava c’era una maestra sui quarant’anni, che da quindici, almeno, lottava tra lo stipendio troppo scarso, il marito malaticcio e i quattro figli, tutti ancora agli studi, tutti da mantenere, tutti da sorvegliare.
“Sentimentalismi, cara mia! Sogni che crollano ad uno ad uno lasciandoti stremata. Ma è bene che ognuno si goda la sua primavera intanto che c’è”.
“Poveretta, “pensava Nannina, “è invecchiata, ha perso la poesia della vita“.
Ma non poteva immaginare ciò che era quella donnetta scialba nella sua casa. Quando entrava, con la voce sempre un po’ roca per il gran parlare fatto in classe, il volto del marito si illuminava, e il figlio maggiore la liberava subito da pacchetti e pacchettini che ella aveva acquistato sulla via del ritorno. La più piccina delle figlie,le abbracciava le ginocchia e le due più grandicelle si affrettavano a stendere la tovaglia, gridandole festose:
“Ciao, mamma!“.
Finiva allora d’essere la maestra e ricominciava ad essere mamma. Durante tutto il pomeriggio lavava , stirava, rammendava, confortava il marito, riguardava i compiti ai ragazzi, preparava la cena ed il pranzo per l’indomani. A notte, poi, anche lei sognava: bimbi e bimbe, un giardino fiorito di fanciulli, tra cui i figli suoi si confondevano con gli altri.
Ma la collega che Nannina amava di più era quella della seconda maschile. Aveva poco più di trent’anni e si chiamava Serena. Era una creatura dolcissima: capelli neri ed occhi scuri e luminosi con una voce piana che sembrava fatta solo per dire cose buone. Nannina le si era affezionata in modo particolare e diceva spesso:
“Se non mi piacesse tanto esser Nannina, vorrei essere Serena!“.
Esse avevano le aule vicine e i loro scolari sentivano la simpatia che correva tra le due maestre ed anch’essi si volevano bene, si scambiavano cortesie e sorrisi quando formavano le file nel corridoio e quelli di seconda avevano sempre l’aria di voler proteggere i piccoli di prima.
Serena aveva il marito militare e la sua vita solitaria ella la dedicava tutta alla scuola.
Da qualche giorno Nannina la vedeva arrivare a scuola accompagnata da un ragazzino che non conosceva, una specie di arcangelo riccioluto. Egli le camminava appresso con passo gioioso.
Poteva avere nove anni e non passava certo inosservato neppure in una piazza affollata di bambini come quella di Gorla.
Quando venne presentato a Nannina egli tese la mano, arrossendo, e sorrise.
“Questo è Carlo, il figlio di una mia amica. La mamma me lo ha affidato perché lo accompagni. Frequenta la terza, ma lo scorso anno, essendo stato sfollato in campagna, non ha frequentato regolarmente, sicché quest’anno dovrà lavorare un poco di più, vero Carlo?“.
Rosalia, appiccicata alla gonna della maestra, alzava verso il nuovo compagno i suoi occhi spauriti.
Carlo le sorrise:
“Come sei piccolina … Abiti lontano?“.
“Non molto … là in fondo, vicino ai prati … “rispose la bambina.
“A me piacciono i prati. Qualche volta ci vado a giocare”.
“Anch’io, quando la mamma ha tempo … “.
“ Se verrai a giocare con me, io porterò il pallone. La mamma me l’ha comprato grosso così … “.
E allargò le braccia come se volesse racchiudervi il mondo.
Dalla scuola, intanto, giungeva il trillare dei campanelli. Subito la folla dei bimbi si incolonnò verso il cancello e ben presto la piazzetta restò vuota.